Sua Maestà il Babà

-di Giuseppe Esposito-

Il babà è universalmente noto come simbolo, icona della pasticceria napoletana. Solo la pastiera e la sfogliatella possono competere con lui in fatto di notorietà.  Eppure questo simbolo della napoletanità nasce lontano dalle acque del golfo.

Le sue radici affondano in una terra più fredda, una terra nordica quale la Polonia di re Stanislaw Leszczinski, nel secolo XVII. In quella corte, uno dei dolci che più frequentemente comparivano in tavola era quello chiamato kugelhupf. Ma il re non lo gradiva molto, perché troppo secco e per lui, che soffriva di problemi ai denti, difficile da masticare. Chiese allora ai suoi cuochi di ammorbidirlo e quelli ricorsero ad una bagna fatta di tokai e sciroppo di frutta. Quanto al nome è dovuto alla fantasia dello stesso re che si ispirò ad Alì Baba, personaggio della raccolta di novelle arabe del X secolo, conosciuta come “Le mille e una notte”.

Più tardi quando sua figlia Maria andò in sposa al re di Francia, Luigi XV, ella portò con sé il pasticciere Nicolas Stohrer che dette al babà la sua caratteristica forma a fungo, mantenuta fino ad oggi. Lo Stohrer fece conoscere la specialità polacca ai cuochi del re di Francia ed essa divenne così babà, con l’accento sulla a,  a causa dell’abitudine di oltralpe di accentare le ultime sillabe della parole.

Ma il viaggio del babà non era ancora finito. Accadde infatti che nel corso del secolo XIX le famiglie nobili napoletane avessero l’abitudine di assumere  al loro servizio dei cuochi francesi, che a Napoli erano detti “Monsù”. Al seguito di costoro il babà fece la sua comparsa sulle tavole aristocratiche napoletane e poi si diffuse anche in tutti gli altri strati della popolazione. E se a Parigi aveva acquisito l’accento sull’ultima a, a Napoli acquisì una seconda b, divenendo ‘o babbà.

Esso divenne mano a mano un vero e proprio simbolo della napoletanità. Entrò così profondamente nella cultura e nella tradizione di Napoli da assumere il significato stesso di  squisitezza. Se un napoletano dice a qualcuno una frase del tipo: “Si proprio ‘nu babbà!”. Vuol dire che gli sta facendo un vero e proprio complimento, lo considera una persona squisita nell’animo e nel garbo.

Nel corso del tempo la ricetta del babà ha subito ben pochi rimaneggiamenti e la sua morbidezza è frutto della lunghissima lievitazione cui è assoggettata la pasta. Tale lievitazione rende la pasta morbida e spugnosa.

Quanto alla forma il babà ha mantenuto quella del fungo inventata dallo Stohrer, ma nelle vetrine delle pasticcerie oggi se ne vedono anche di forme assai diverse, mignon, giganti, di forma circolare, guarniti di panna e fragoline oppure con crema Chantilly, di nutella o di crema di limoncello, come avviene in Costiera Amalfitana.

Quale che sia però la forma vale per tutti regola aurea che il babà deve essere né troppo asciutto né troppo bagnato. Deve essere cotto al punto giusto e va servito assolutamente a temperatura ambiente.

Questo dolce è penetrato così a fondo nella mentalità dei napoletani che non c’è pranzo della domenica in cui dopo il ragù ed una bella parmigiana di melenzane, possa mancare il babà. Naturalmente dopo un breve pausa per permettere allo stomaco di respirare e seguito poi da una immancabile tazzulella di caffè  fatta, naturalmente comme il faut.

Ma che sulla preparazione del babà non si debba scherzare è cosa divenuta universalmente nota dopo che l’assunto fu proclamato nella canzone “Il babbà è una cosa seria”, presentata a San Remo molti anni fa dalla attrice Marisa Laurito, anch’essa, ça va sans dire, napoletana.

 

Giuseppe Esposito

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