Annurca

di Giuseppe Moesch*

Ogni bambino porta con sé per la vita il ricordo del morso ad una bella mela, i denti che rompono la buccia lucida, e le prime gocce di succo leggermente profumato, dolce e acidulo che invade la bocca, per continuare girandoci intorno con sistematica voluttà, fino a ritrovarsi con in mano il torsolo su cui l’apparire dei semi indica il compimento di quel lavorio così gradevole.
La mela per me è sempre stata la mela annurca, tipica della mia città e della mia regione, con qualche variante rappresentata dalle cosiddette mele sergente, il cui nome stesso indica la durezza del frutto, poco più grandi delle annurche ma assai simili, e considerate meno pregiate di quelle ultime, ma forse per soli motivi commerciali.

Sono ritornate, dopo un lungo periodo di oblio dovuto al rifiuto dei mercati nazionali a seguito dell’epidemia di colera che attinse Napoli nel 1973, essendo la Campania la zona di produzione quasi unica di quel frutto.
Oggi assistiamo ad un forte rilancio di quel prodotto, dopo la decisione europea della concessione del marchio IGP, ovvero Indicazione Geografica Protetta, e pertanto la possiamo trovare su tutti i banchi dei mercati, ma esposta alla concorrenza di molte altre specie altolocate per la schiacciante politica di vendita di grosse strutture nazionali ed internazionali, che propongono una gamma di cultivar tese a soddisfare principalmente il gusto estetico dei consumatori.

Oggi esistono circa settemila diverse varierà di mele, ed è così che sui banchi del mercato pile ordinate, piramidi ardite o stese colorate di quei frutti attraggono i compratori e le varie offerte ci parlano di Fuji, Golden Delicious, Royal Gala, Pink Lady, Granny Smith, Stark Delicious per capirci quella di Biancaneve, che confermano l’omologazione mondiale di un gusto industrializzato, lasciando fuori le vecchie varietà.

Quando ero ragazzino le alternative erano poche; mia nonna spesso mi proponeva le mele banana, che odiavo, in quanto farinose, ed anche se più grosse e molto profumate ricordando quello delle banane, non scrocchiavano mordendole e mi lasciavano in bocca una sensazione di poltiglia masticata.

Un’altra mela tipica era la limoncella che si trova citata già a partire dal 1700 da scrittori molisani, essendo quella la sua zona di origine, ma presente sul mercato napoletano. Era la classica mela di Natale perché si conservava bene ed era molto simile per il colore al limone oltre che per il suo gusto leggermente asprigno. Una varietà poco più grande e leggermente rosata è nota anche come mela “zitella”, per l’abitudine che le donne da marito avevano di serbare qualcuno di quei frutti nei cassetti tra la biancheria intima, per profumarla.

C’era infine la renetta che in Piemonte era nota anche come mela Savoia, perché amata dai membri di quella casata, che però veniva usata per le torte e solo in tempi più recenti per seguire tendenze di fuori, cioè estranee alle tradizioni di casa, come ad esempio lo strudel, importate tra le nostre mura, dalle letture di mio padre che comprando una rivista di cucina, quasi unica a quell’epoca “La cucina Italiana”, e provava a realizzare quelle ricette, con mia madre, e noi figli curiosi spettatori ed apprendisti stregoni, replicando i piatti illustrati sulle pagine patinate
È una storia antica quella delle annurche, la ritroviamo infatti già dal tempo dei romani, ma assai più antico è quella della mela, che risale a circa diecimila anni orsono.

L’antica capitale del Kazakhistan, Alma Ata o con l’odierna notazione Almaty, è il nome che potrebbe significare “che dà vita alle mele”, o “nonno delle mele” o ancora “posto delle mele”, è considerata la regione originale di quell’albero.
I frutti ricchi di semi avevano una polpa assai acida e la successiva diffusione verso il mare, il Ponto Eusino, cioè l’odierno Mar Nero, da dove i greci lo trassero per poi migliorarlo e ne consentirono la diffusione in tutto il Mediterraneo.
Era molto costoso ed i greci lo considerarono un frutto afrodisiaco, e basta guardare ai miti e alle leggende ad esso legato per comprenderne la spiegazione.

Durante la festa per il matrimonio tra Teti e Peleo, futuri genitori di Achille, apparve una Dea, Eris, dea della discordia, che per cautela non era stata invitata. Tra lo sgomento generale la stessa gettò sulla tavola imbandita una mela d’oro dicendo semplicemente: “Alla più bella”, prima di svanire. Grave imbarazzo per chi dovesse effettuare la scelta e tutti pensarono a Zeus, che di scuse ne sapeva trovare a iosa, e pensò di delegare il rischioso incarico a Hermes, che ancora più furbescamente suggerì il nome di un mortale che sarebbe stato più imparziale non avendo rapporti parentali con le potenziali destinatarie, e fu prescelto Paride figlio del re di Troia.

Come in un moderno concorso per Miss qualcosa, le tre candidate misero in mostra le loro grazie ma le condirono con offerte accessorie che tentavano il giovane principe: una, Era, offriva la forza, la seconda, Atena, la saggezza mentre Afrodite gli offrì la donna più bella del mondo, presentata come l’amore: “Nihil novi sub sole” come ci dice la Bibbia. Come sia andata lo sappiamo.
La scelta di Paride è basata sull’offerta della mela alla più bella divenne di fatto un modo, in quella cultura, attraverso il quale un giovane ci provava con una ragazza, lanciandole una mela; se la giovane accettava allora la storia di completava, e forse si consumava, ma in ogni caso i giovani sposi, nella prima notte di nozze, dovevano condividere una mela.

Tuttavia non era quella della scelta di Paride è l’unica presenza nella mitologia greca di quel frutto facendoci comprendere la rilevanza che esso aveva e di quanto fosse prezioso e comunque molto caro. Anche Ercole fu coinvolto nella sua undicesima fatica ovvero quella di cogliere tre mele d’oro dal Giardino delle Esperidi custodito da Ladona, un drago a cento teste che sorvegliava l’albero. Su suggerimento di Prometeo, sempre quello del fuoco, Ercole chiese ad Atlante di svolgere quel compito da ladro, sostituendolo nel frattempo lui stesso nell’operazione di sostegno del mondo sulle spalle.

Anche nel mito di Atalanta compaiono tre mele d’oro colte dallo stesso giardino da Afrodite e donate a Melanione per risolvere le sue pene d’amore, infatti l’uomo durante la gara di corsa alla quale doveva partecipare chi ambisse a sposare Atlanta stessa, essendo proprio la mano della fanciulla il premio mentre la sconfitta era pagata con la morte. Per distrarre la sua desiderata e avversaria, Melanione usa i pomi lasciandoli cadere in terra inducendo la fanciulla a raccoglierli, riuscendo così a vincere la gara e sposare Atlanta.
Ovviamente la diffusione di quel frutto coinvolse anche i romani come attestano i testi di diversi autori tra i quali in particolare Plinio il Vecchio nel suo “Naturalis Historia”.

Il grande naturalista che perì per osservare da vicino la grande eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei, Ercolano, proprio la città dove nella Casa dei Cervi resta un dipinto che rappresenta proprio quel tipo di mela,, e l’intera area circostante, scrisse che nella zona dell’agro puteolano, cioè intorno all’attuale Pozzuoli, dove sorgeva il lago d’Averno, vi era una copiosa produzione di mele che egli chiama “Mala Orcula”, perché prodotta nella zona dell’Orco ovvero il luogo dove si riteneva fosse la porta di accesso agli Inferi, considerando la vicina presenza della Solfatara.

La trasformazione successiva dall’originale nome nel volgare orcole, a anorcola, annorcola fino ad annurca il passo è breve; dopo oltre duemila anni quel prezioso frutto è ancora sulle nostre tavole.
I romani è noto erano dei gran conservatori in fatto di costumi, amavano ritrovare le cose che facevano parte della lor quotidianità, nei luoghi dove si recavano e quando ampliavano i loro confini avevano cura di costruirvi terme, circhi arene e quindi strade, acquedotti, templi, ma non trascuravano di mettere a cultura nei nuovi spazi anche i cibi che più amavano, quindi vino, olio, cereali e frutta diffondendo anche l’impianto di alberi di mele che si diffusero in tutta la Mitteleuropa, cosa che avvenne a partire .dalle spedizioni romane intorno al 100 a.C.
Insieme alle mele i legionari portarono con sé i miti e le leggende associate a quel frutto, che si sovrapposero a quelli locali ad integrare le credenze pregresse.

Ovviamente le cose non si svolsero in maniera omogenea per la presenza di popolazioni appartenenti a stirpi differenti; in Europa centro occidentale e Irlanda erano stanziati i Celti, in Europa centro settentrionale i Teutoni mentre nei paesi Scandinavi e a seguito delle loro migrazioni anche in Islanda, i Norreni.
I Celti consideravano la mela simbolo di morte e rinascita; la loro religione era strettamente legata alla natura, ed anche se poco si conosce di essa per carenza di organici testi scritti, essendo tramandata per via orale attraverso i sacerdoti, i Druidi, parola che letteralmente significa “molto istruiti”, natura rappresentata in molti altri simboli come il vischio; ancora oggi lo usiamo come segno beneaugurante durante le feste natalizie.

Presso i Teutoni, ma più ancora presso le tribù insediate nella penisola scandinava ovvero i norreni, si credeva che fosse la Dea Iduna, a vegliare sulle mele d’oro, capaci di rendere immortali.
Di quei culti rimasero alcuni simboli tra i quali il più importante era la cosiddetta Reichsapfel ovvero la mela che stringeva in mano l’Imperatore del Sacro Romano Impero al momento dell’incoronazione, simboleggiando la terra ed il poter che l’uomo avrebbe avuto sull’intero orbe terraqueo.

È particolarmente interessate notare, come sostiene il mio amico Fabrizio, che in ogni parte del mondo e quale che fossero le risorse disponibili, gli uomini sono riusciti a produrre alcool, e le mele non hanno fatto eccezione. Le più antiche tracce risalgono ad un reperto ceramico della metà del terzo millennio a.C. trovato in Spagna, contenente tracce di sidro, ovvero del liquore ottenuto dalla fermentazione delle mele. Lo si otteneva a Babilonia, in Egitto, in Grecia e a Roma, ma fu in Francia ed in Inghilterra che il prodotto si espanse maggiormente, anche per la minore presenza del vino in quell’ultimo paese.
Anche in Irlanda il ruolo della mela e del sidro è significativo ed in più è facile ancora oggi riscontrare tra i giochi dei bambini, ma anche degli adulti durante le feste e le sagre, una competizione, il cosiddetto “bobbing for apples”, che consiste nel mettere in una bacinella colma d0acqua una mela e tentare di cavarla fuori con i soli denti.

Un’ultima rappresentante delle mele della mia infanzia era la mela cotogna: originaria dell’Asia Minore; già nel 2000 a.C. era nota ai Babilonesi, e tra i Greci era considerata frutto sacro ad Afrodite; secondo Plutarco, le donne dovevano mangiarlo la prima notte di nozze perché avrebbe assicurato la fertilità. In epoca romana era ben nota, venendo citata da Catone, Plinio e Virgilio.
Si tratta di un frutto dalla polpa dura che si ossida facilmente diventando scura, il sapore non è particolarmente gradevole, astringente, quasi allappante poco dolce, che però una volta cotto diventa dolce e gradevole.
Mia nonna le preparava cuocendole al forno, mantenendole intatte, scavando un foro dal quale estraeva il torsolo con i semi, e riempiendo il buco con una cucchiaiata di marmellata di amarene e una spolverata di zucchero e ci veniva proposto come dessert serale di inverno. I portoghesi lo chiamavano “marmelo” da cui l’odierno termine di marmellata, e ridotto a sciroppo veniva usato anche come dolcificante al posto del miele molto costoso ed in assenza dello zucchero, come dolcificante.

Quando frequentavo le scuole elementari e medie, la scuola ci forniva, dal lunedì al venerdì, un primo piatto caldo, ed il pane, mentre portavamo da casa un cestino con un secondo, che poteva essere un formaggino, del prosciutto, una frittatina, ed un frutto un mandarino, una mela tagliata, o un’arancia sbucciata non disponendo ovviamente di coltelli. Alcune mamme davano invece una cotognata; non ho idea se oggi esistano ancora in vendita in quella forma. Si trattava di parallelepipedo fo circa cinque centimetri di lato e due di altezza e di profondità, avvolto in una pellicola di carta oleata, contenenti una marmellata di mele cotogne. Per me erano troppo dolci e non le amavo, ma riscuotevano grande successo.

All’inizio degli anni ottanta, ebbi modo di lavorare per la realizzazione di un progetto trasportistico Transfrontaliero Italo Greco, subito dopo l’entrata della Grecia nella Comunità, che comprendeva il potenziamento di infrastrutture in Italia, in particolare nella zona del brindisino, e la realizzazione della strada Igoumenitsa – Volos ed il potenziamento dei due porti. La fattibilità per la sola Grecia era impossibile non essendo giustificati i costi con i soli benefici locali, ma l’integrazione delle economie dei due Paesi permetteva la finanziabilità del progetto. Questa intuizione non era ben vista dai funzionari ministeriali greci che si sentivano in parte sminuiti, mentre i politici delle due parti erano favorevoli.

Dopo le riunioni di Roma e di Atene, ci recammo coll’amico Giorgio a Salonicco per incontrare un Professore di trasporti che insegnava in quella Università, esperto del Ministero, anche egli piuttosto refrattario ad accettare la soluzione che proponevamo. Ci accompagnava Rosa, dirigente del Ministero e braccio destro del Ministro, Ingegnere, già allieva e poi assistente dello stesso professore, che ci aveva preavvisato delle caratteristiche dell’uomo.
Rosa era una donna estremamente intelligente e capace e lo dimostrava la velocità con la quale aveva raggiunto i vertici del Ministero, ma a tutto questo si aggiungevano altri elementi quali la straordinaria empatia e simpatia e non ultima una bellezza statuaria, tanto che ancora sfilava a Parigi come modella per grandi case di moda.

Al termine di una estenuante mattinata di lavoro, Rosa ci portò a colazione in uno dei tanti ristoranti sulla spiaggia, dove mi sentii subito a casa; stesso venticello salmastro, il rumore della risacca, il pesce alla brace, il buon vino leggermente resinato, e la gradevole compagnia mi fecero subito pensare al detto: “Italiani e Greci, una faccia, una razza”.
Al momento di ordinare il dessert Rosa ci disse cge ci avrebbe fatto provare una specialità locale e dopo pochi minuti un solerte cameriere portò ad ognuno di noi un piatto al cui centro troneggiava una grande mela cotogna cotta al forno, ripiena di marmellata e cosparsa di zucchero.

A questo punto è doverosa una precisazione: i lettori più attenti ed oserei dire forse un po’ pedanti, si saranno chiesti perché non ho parlato della mela più famosa ovvero quella di Eva. È una scelta voluta e ragionata perché in nessuna parte della Bibbia si parla di una mela ma semplicemente del frutto della conoscenza; le condizioni climatiche dell’area biblica non erano tali da pensare ad una capillare diffusione di quel frutto. Se vogliamo tentare di identificarlo ad ogni costo bisognerebbe forse pensare ad un melograno, ma non lo sappiamo con certezza. Da sempre la propaganda ha le sue esigenze e ben lo sapevano i predicatori che avrebbero trovato grandi difficoltà a spiegare ad ignoranti, potenziali adepti, cosa fosse un melograno essendo assai più comodo riferirsi ad una mela di cui tutti avevano chiara in mente l’immagine.
Se volessimo far riferimento a quella iconografia, ovvero alla serie completa delle opere ispirate a quella immagine, avremmo il problema della dimensione della biblioteca dove racchiudere quel catalogo, essendo praticamente infinito il numero degli artisti che hanno tratto spunto da quel tema.

Tuttavia possiamo pensare a quanto ancora quel frutto abbia inciso sulla vita di tutti noi. Nei paesi del nord Europa la figura di Santa Klaus è associata ai doni che il santo porta il 6 dicembre ai bambini, noci mandarini e mele anche a ricordo del fatto che il Vescovo di Mira, e patrono di Bari, era solito girare per le strade di quella città della Turchia distribuendo quei frutti ai bambini poveri.
Non meno iconica è l’immagine dell’eroe svizzero, Guglielmo Tell, costretto dal balivo a colpire una mela posta sul capo del figlio, o quella leggendaria di Newton assopito sotto un melo e colpito da uno di quei frutti intuì l’esistenza della legge di gravità.
Non meno importante è la figura di Biancaneve, che dagli antichi incantesimi del Nord alle rivisitazioni disneiane cii restituisce la dimensione misterica che la mela ha sempre prodotto sugli esseri umani.

Il succoso frutto evoca oggi la città di New York, la città piena di linfa vitale che non dorme mai; il nome deriva da un paragone fatto da Edward S. Martin, nel volume-guida “Il viaggiatore a New York” che già nel 1909 sottolineava come la città assorbisse tanta linfa non solo vitale ma anche e soprattutto finanziaria.
Per il suo ruolo socio culturale ed economico si è deciso che il 21 ottobre è ufficialmente la Giornata della mela.
Mi capita spesso andando al mercato di vedere, sul banco della simpatica e leggermente androgina fruttarola romana, delle mele annurche in esposizione ed una volta ne ho acquistate, restando però deluso: erano farinose, forse perché da troppo tempo in attesa di un compratore.
Da allora non ne ho più mangiate, ed ho pensato, come per una donna che si è amata, che era meglio conservare intatto il ricordo, che tentare di riprovare emozioni legate al tempo passato.

Giuseppe Moesch Giuseppe Moesch

Giuseppe Moesch

Napoletano, già professore ordinario di Economia Applicata, prestato alla politica ed alle istituzioni nazionali ed internazionali, per le quali ha svolto incarichi e missioni viaggiando in quasi cinquanta Paesi attraversando l’umanità che li popola. Oggi propone le sue riflessioni scrivendo quando non riesce a capire quelle degli altri.

Ultimi articoli di Giuseppe Moesch