“La vita di chi resta” è il nuovo libro di Matteo B.Bianchi

Non riesco ancora a capire perché scelgo di leggere un libro. Non so spiegare il motivo che mi spinge verso una copertina o verso un autore in particolare: un motivo non c’è.

In questo caso, invece, sono assolutamente consapevole del motivo che mi ha spinto verso questa lettura: il ritorno del dolore.

Leggendo la sinossi del nuovo libro di Matteo B.Bianchi ho capito che andava letto, in questo preciso momento della mia vita, dovevo leggerlo assolutamente.

Ho ordinato in preorder la versione e-book e stanotte l’ho letto, tutto di un fiato, senza fermarmi.

LA VITA DI CHI RESTA (edizioni Mondadori) è un libro difficile da catalogare, piacevolmente anarchico racconta di un argomento di cui si conosce, più spesso di quanto immaginiamo, il risultato finale ma nessuno è in grado di spiegare il perché, le profonde motivazioni che portano al suicidio. Un gesto estremo di cui si parla poco: fa paura.

“Sto diventando il dolore che mi abita.” Scrive Matteo Bianchi e con questa consapevolezza non si limita a raccontare del suicidio, compie un gesto eroico nel decidere di parlare di un pezzo fondamentale della sua vita, e farlo attraverso le pagine di un libro: un racconto profondamente intimo, non necessario, che nessuno ha richiesto. In un’epoca in cui tutte le vite di tutti sono inutilmente esibite senza filtri, Matteo Bianchi ci costringe a leggere e cercare nelle sue parole un motivo, un’ancora che illumini il buio con cui è stato costretto a convivere.

Usa parole precise, essenziali. Non c’è spazio per alcun fraintendimento perché è questo l’unico modo in cui può raccontare il suicidio della persona avuta al proprio fianco per tanto tempo.

“Se scrivo questo libro a frammenti è perché dispongo solo di quelli. Dovrei chiamarli cocci, per tenere fede alla metafora della civiltà sepolta usata poco fa. O reperti. Cose a pezzi, comunque.” Questo è il grande pregio di questo libro: incede con lentezza, indugia sui particolari, scava tra le Polaroid della sua memoria cercando di unirle in maniera ostinata, attraverso la scrittura c’è il tentativo di dare un senso ai giorni bui. Un senso che forse non c’è, e sarà proprio la presa di coscienza di questa vana ricerca a riportarlo sulla propria strada.

È un racconto spesso ripetitivo ed angosciante, ma sono proprio queste continue ripetizioni, il volere usare parole sempre uguali che costringono il lettore a sentirsi in una trappola vorticosa di cui non si riesce a vedere l’uscita. Sono queste continue reiterazioni che aiutano l’autore a raccontare un dramma che sembra lontano da noi, ma esiste e Matteo Bianchi riesce perfettamente nello scopo: S. (questo il nome del protagonista suicida) entra nelle nostre vite e vogliamo conoscerlo.

“Non si va alla deriva in una sola direzione. Si è strappati da una parte all’altra. Ci si sfracella in ogni direzione.” Il dolore di Matteo Bianchi è in tutte le pagine, non si può evitare e per andare avanti bisogna andarci contro.

A metà strada tra un memoir, un diario e una seduta di psicanalisi l’autore sceglie di spogliarsi e lo fa solo nel momento in cui si sente pronto a parlarne, non scrive per liberarsi di questo dolore che nessuno può spiegare o giudicare: c’è e basta e anche se la letteratura, spesso, resta un’ancora di salvezza, questa volta sembra non essere così.

Un libro necessario, non solo per l’autore, ma anche per imparare a capire cose di cui parliamo e non conosciamo.

Da leggere assolutamente. 

Umberto Mancini

 

 

 

 

Umberto Mancini

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