Il caso Turetta: omicidio senza crudeltà
di Michele Bartolo-
E’ di ieri sera la notizia che la Corte di Assise di Venezia ha condannato all’ergastolo Filippo Turetta per l’omicidio di Giulia Cecchettin.
Tutti ricordiamo la vasta eco che ha avuto il caso di femminicidio di cui si è reso responsabile e i sentimenti condivisi di ribellione e rivolta verso un crimine tanto efferato. Tuttavia, se da un lato la condanna è stata quella della pena massima, dall’altra sono state escluse le aggravanti dello stalking e della crudeltà, circostanze accessorie, se vogliamo, ma da non sottovalutare.
La pronuncia della Corte, infatti, se pure pone la parola fine al primo grado di giudizio, lascia intravedere uno spiraglio per un possibile appello della difesa ed una riforma, sia pur parziale, della pesante condanna inflitta.
L’esclusione delle aggravanti dello stalking e della crudeltà, infatti, se pur non ci consentono di esprimere giudizi di merito che solo chi ha piena conoscenza delle carte del processo può esprimere, lasciano supporre che l’imputato possa beneficiare, nel secondo grado di giudizio, di una attenuazione della pena, dovendosi valutare meglio la coerenza dell’esclusione delle aggravanti rispetto, si ripete, al massimo della pena che gli è stato inflitto.
Diciamo subito che gli esiti del processo di primo grado non possono sorprendere nessuno: ci troviamo di fronte ad un omicida reo confesso e ad un crimine particolarmente efferato, ben 75 coltellate, seppur non sono state ritenute sufficienti per configurare l’aggravante della crudeltà.
Quello che semmai lascia perplessi è come possa conciliarsi il massimo della pena con l’esclusione dell’aggravante della crudeltà in un contesto omicidiario di tal fatta. Ma la materia sarà portata all’attenzione dei Giudici che presumibilmente saranno chiamati a decidere il secondo grado di giudizio.
Allo stato degli atti, per la Giustizia italiana, come sopra detto, Filippo Turetta deve espiare la pena dell’ergastolo. Questo vuol dire che si tratta di una pena che dura per tutta la vita? Ma è proprio così? Quanto dura l’ergastolo in Italia?
In realtà è necessario effettuare una distinzione tra ergastolo comune ed ergastolo ostativo. Nel primo caso l’ergastolano potrà usufruire di importanti benefici. Infatti, l’ergastolano comune potrà essere ammesso, se ritenuto non pericoloso e dopo l’espiazione di almeno dieci anni di pena, ai permessi premio, nonché, dopo vent’anni, alla semilibertà e dopo ventisei anni alla liberazione condizionale.
Tale limite può essere ulteriormente abbassato a ventuno anni se il detenuto ha tenuto una buona condotta, grazie all’istituto della liberazione anticipata. Dopo aver ottenuto la liberazione condizionale, l’ergastolano è sottoposto per cinque anni ad un regime di libertà vigilata, con prescrizioni e obblighi da rispettare. Se la sua condotta rimane buona, al termine di questo periodo la pena è considerata definitivamente estinta e l’ergastolano torna ad essere un cittadino libero.
Tali disposizioni, invece, non si applicano nel caso dell’ergastolo ostativo. Si tratta di una forma ancora più severa della pena in esame, la quale preclude l’accesso ai benefici sopra descritti, a meno che non ricorrano specifiche condizioni (in tal modo è stata coniata l’espressione “fine pena mai” oppure “carcere a vita”). Tale tipologia di ergastolo risulta applicabile per reati connotati da una rilevante gravità (in particolare i reati di stampo mafioso), per i quali la Legge ritiene che il condannato non abbia diritto ad alcun beneficio.
Tuttavia, di recente il D.L. n. 162/2022, in adempimento di una pronuncia della Corte Costituzionale, ha previsto la possibilità, anche senza collaborazione con la giustizia, di ottenere i benefici previsti dalla Legge, purché i condannati dimostrino l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna ed alleghino elementi che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. Al di là di questi correttivi, apportati anche alla fattispecie dell’ergastolo ostativo, è evidente che si è in affanno per cercare di coordinare la pena dell’ergastolo, perpetua secondo la sua previsione astratta, con la Carta Costituzionale che, come sappiamo, è improntata al principio personalista.
Si è molto dibattuto in dottrina e nella giurisprudenza ordinaria e costituzionale dei significati e del valore profondo di quel precetto costituzionale contenuto nel terzo comma dell’art. 27 della Costituzione, che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Se la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 264 del 22 novembre 1974, con la quale ha respinto la questione di incostituzionalità dell’ergastolo, si è arrampicata sugli specchi di una tormentata concezione polifunzionale della pena, essa, tuttavia, non è sfuggita al paradosso di una pena perpetua dichiarata costituzionalmente legittima nella misura in cui è, in realtà, non perpetua, per i benefici e l’estinzione anticipata di cui abbiamo detto.
Probabilmente si deve intraprendere un percorso in cui bisogna liberarsi dalla prigionia delle fattispecie astratte e tornare a giudicare il caso concreto, le persone in carne ed ossa, rispetto alle quali va sicuramente applicato il principio costituzionale di rieducazione della pena e, quando si infligge il massimo della punizione, preservare la coerenza della pena in relazione alle accuse che risultano provate. Ancora, sul piano operativo, deve garantirsi la effettiva espiazione della pena per tutta la sua durata, nella consapevolezza che nessuna pena può durare per tutta la vita.
