Custodi della memoria
Con lo zoologo Giacomo D’Ammando alla scoperta degli elefanti africani-
di Maria Gabriella Alfano-
L’elefante africano è l’animale più grande e longevo della Savana. Dotati di cervello paragonabile per grandezza, complessità e capacità con quello di cetacei e grandi scimmie, questi enormi erbivori hanno sorprendenti comportamenti ed emozioni come la compassione, l’altruismo, l’imitazione e persino il dolore per la perdita di compagni e familiari. Questo perché, oltre ad avere particolarmente sviluppate le aree del cervello legate alle emozioni, possiedono anche i lobi temporali più grandi tra tutti i mammiferi che comportano il mantenimento dei ricordi e della memoria, soprattutto quella di tipo spaziale.
Nel corso di un recente viaggio in Kenya, ho avuto modo di conoscere nel loro habitat gli elefanti africani. Li ho osservati nei vari momenti della giornata riuniti in branchi guidati dalla femmina più anziana mentre accudivano amorevolmente i figli o si spostavano in fila indiana seguiti dagli immancabili uccelli pronti a nutrirsi dei parassiti che albergano sulla loro pelle.
La loro grande mole li pone al riparo dagli attacchi dei predatori naturali appartenenti ad altre specie animali. I rischi sono dipendono dagli esseri umani che da secoli li uccidono per impadronirsi dell’avorio delle loro zanne.
Nel 1993 il biologo scozzese Iain Douglas-Hamilton, che negli oltre trent’anni trascorsi in Kenia e Tanzania aveva studiato la vita, le abitudini e il comportamento degli elefanti, fonda l’ONG “Save the Elephants”. Lo fa per contrastare il bracconaggio dell’avorio che nel decennio 1969-1979 aveva dimezzato la popolazione degli elefanti, preda dei bracconieri che li uccidevano per impadronirsi dell’avorio, molto richiesto nei paesi orientali. La sua denuncia dei rischi di estinzione contribuì all’approvazione di leggi che vietavano il commercio dell’avorio.
Anche se oggi l’attività di bracconaggio è in netta diminuzione, il pericolo non è del tutto scongiurato perché basta un piccolo incremento del valore dell’avorio sul mercato per risvegliare gli appetiti dei bracconieri.
Che cosa si sta facendo e che cosa si può fare?
Ne ho parlato con lo zoologo Giacomo D’Ammando, romano, trentatrè anni, che da anni lavora per “Save the Elephants” occupandosi di progetti per la conservazione degli elefanti, studiandone il comportamento in relazione all’ambiente.
Giacomo, com’è nata la tua attività nell’Associazione?
Sono appassionato di animali e natura da quando ero bambino, e Iain-Douglas Hamilton e il suo team di ricercatori kenyani erano un po’ i miei eroi. Leggevo di loro su National Geographic e mi appassionavo sempre più. Quando, alcuni anni fa ho avuto l’opportunità di lavorare per Save the Elephants, il mio sogno è diventato realtà. Lavoro con la fauna africana da quasi 13 anni: ho cominciato come studente-ricercatore e poi sono diventato coordinatore di progetti sul campo.
Di che cosa ti occupi?
Mi occupo principalmente di comportamento animale, in sostanza uso le mie conoscenze scientifiche per progetti di conservazione (più facile a dirsi che a farsi).
Come si svolgono le tue giornate?
Come coordinatore di ricerca di Save the Elephants sono responsabile di un gruppo di giovani e brillanti ricercatori kenyani. Il mio lavoro consiste principalmente nel guidare e supervisionare i ricercatori locali nei loro progetti che riguardano il comportamento e i movimenti degli elefanti, con uno sguardo sempre a come i dati raccolti possano essere tradotti in strategie efficaci per la conservazione e gestione delle popolazioni di elefanti. Abbiamo già completato alcuni importanti lavori tecnici.
Viviamo nel nostro centro di ricerca nella Samburu National Reserve, nel nord del Kenya e, per quanto riguarda la tua domanda non abbiamo propriamente una “giornata tipo”. Potremmo essere sul campo a posizionare un collare GPS su un elefante per studiarne i movimenti, oppure davanti a un computer ad analizzare i dati derivanti dai collari, per identificare corridoi che connettono importanti aree protette in Kenya e nel resto dell’Africa. Insomma, non c’è alcune routine nel mio lavoro!
Parliamo degli elefanti. Nei pochi giorni che ho trascorso nella Savana, osservandoli vivere liberi nel loro habitat li ho percepiti come una comunità coesa, con una sua struttura sociale organizzata e comportamenti molto vicini a quelli degli esseri umani…
Penso che gli elefanti stimolino la nostra immaginazione perché sono così diversi eppure così simili a noi. Siamo entrambi mammiferi e animali sociali e viviamo in gruppi familiari con relazioni complesse tra i singoli individui. Viviamo a lungo (l’elefantessa più anziana a Samburu, è morta di cause naturali ad un’età stimata di 62 anni!) e facciamo affidamento sulla guida e sulle conoscenze dei nostri “anziani” per farci strada nei nostri ambienti. Nonostante ciò, siamo separati da più di 80 milioni di anni di evoluzione! Per questo, cercare di comprendere cosa succede nella mente di un elefante, è secondo me come cercare di decifrare un’intelligenza aliena.
Il vostro lavoro di ricerca è proprio quello di studiare il loro comportamento…
Infatti, capire come gli elefanti prendono decisioni è di importanza cruciale. Dove hanno bisogno di andare? Dove sono le aree che offrono cibo, acqua, e interazioni sociali per soddisfare i loro bisogni a seconda del ciclo delle stagioni? E come cambiano le loro decisioni, quando l’ambiente cambia?
Gli elefanti sono a rischio di estinzione? Quali sono le principali minacce?
Gli elefanti africani (includendo le due specie attualmente riconosciute, l’elefante di savana e l’elefante di foresta) hanno subito un sostanziale declino dagli ‘70 in poi, principalmente a causa di ondate di bracconaggio per l’avorio che hanno colpito il continente negli anni ‘70-’80, e tra la fine degli anni 2000 e il 2015. Questo declino ha interessato la maggior parte delle popolazioni di elefanti, ad eccezione di alcune aree molto ben protette in Africa meridionale (dove le popolazioni hanno invece continuato a crescere). La situazione rimane preoccupante in Africa occidentale (intorno al Golfo di Guinea), e in alcune nazioni dell’Africa centrale, dove le popolazioni di elefanti sono per la maggior parte piccole e frammentate in piccole “isole” protette, e minacciate da instabilità politica e conflitti in corso. Alcune di queste popolazioni rimangono ad alto rischio di estinzione. Ci sono però delle ottime notizie: il bracconaggio per l’avorio è al momento a livelli bassi. Le popolazioni di elefanti sono in ripresa in Africa orientale (per esempio, in Kenya e Tanzania) e continuano a crescere in molte aree dell’Africa meridionale. Questo comporta tutta una serie di problemi nuovi: in parallelo con la crescita della popolazione umana, e con il conseguente sviluppo agricolo e urbano, i contatti (e i conflitti) tra elefanti ed esseri umani sono in aumento. Adesso ci chiediamo: come possiamo conservare gli elefanti, e al tempo stesso evitare che entrino in conflitto con le persone? E come possiamo mantenere le connessioni tra gli ecosistemi di cui gli elefanti sono parte, senza rinunciare a importanti infrastrutture? La conservazione degli elefanti e le attività’ umane possono andare d’accordo, a patto che le decisioni riguardanti gli elefanti siano basate su solide evidenze scientifiche, tenendo conto dei bisogni degli elefanti e delle persone.
Pare che nonostante molti Paesi abbiano vietato il commercio dell’avorio, ogni anno vengano ancora uccisi più di 20.000 elefanti perché non è venuta meno la domanda dalla Cina e dal Giappone dove è fiorente la produzione di oggetti ornamentali in avorio….
In realtà, non è più così! I livelli di bracconaggio sono calati su tutto il continente. Questo è avvenuto grazie sia agli impegni per la conservazione sul campo (da parte di varie nazioni africane), sia grazie agli sforzi di cooperazione internazionale con le nazioni asiatiche dove la domanda per l’avorio era alle stelle nei primi anni 2010. La Cina ha deciso di chiudere il proprio commercio interno di avorio nel 2017, ed è stata seguita da altre nazioni, tra cui Hong Kong – l’ultima a chiudere il commercio interno nel 2021. Queste decisioni hanno fatto seguito ad importanti campagne volte ad informare il pubblico sulle conseguenze della compravendita di avorio, causando una drammatica riduzione nella domanda per l’avorio, e quindi del bracconaggio in Africa. Un incredibile sforzo di cooperazione tra Paesi molto diversi tra loro, che hanno messo da parte le differenze in nome della conservazione degli elefanti. Questo però non significa che il commercio di avorio sia ora morto e sepolto: come in passato, il valore dell’avorio sul mercato nero oscilla di frequente e potrebbe “tornare” come merce di contrabbando. Rimaniamo quindi in stato di allerta per intercettare la prossima eventuale ondata di bracconaggio.
Mi è capitato di guardare un tristissimo video che racconta la morte di un grande elefante molto anziano ucciso e privato delle zanne da parte dei bracconieri. Mi conforta apprendere che questi drammatici episodi ce li siamo lasciati alle spalle.…
Fortunatamente, il bracconaggio per l’avorio è al momento a livelli molto bassi in Kenya, grazie all’impegno del Kenya Wildlife Service e di altre agenzie governative, di varie organizzazioni conservazionistiche, e ovviamente della popolazione del Paese. I conflitti tra uomini ed elefanti sono però ancora qui con noi. Sia elefanti che esseri umani possono rimanere feriti o uccisi, mentre competono per risorse varie, dall’acqua ai raccolti al foraggio per il bestiame. Assistere a questo tipo di conflitto per me è motivo di grande sconforto ed è difficile parteggiare esclusivamente per una specie o per l’altra: sia umani che elefanti diventano vittime.
Il Kenia ha creato numerosi parchi naturali in cui gli animali dovrebbero essere al riparo dai rischi. Ci sono altre criticità?
Gli elefanti sono di solito al sicuro nei parchi e nelle riserve del Kenya, specialmente ora che il bracconaggio organizzato è stato contenuto. Il problema principale ovviamente è che le nazioni africane necessitano di fondi per gestire le proprie aree protette, fondi che diventano sempre più scarsi sulla scena internazionale. L’altro problema è che in molti casi i parchi non sono abbastanza grandi per proteggere popolazioni di elefanti a lungo termine. La conservazione di questi animali è quindi basata sulla buona volontà e sulla tolleranza delle comunità locali che spesso fanno enormi sforzi conservazionistici che andrebbero riconosciuti.
Immagino che l’azione di “Save the Elephants” sia fondamentale per migliorare le attività di protezione. Concretamente come operate?
Per prima cosa, Save the Elephants produce conoscenze scientifiche che possono essere prese in considerazione da agenzie ed enti amministrativi per prendere decisioni riguardo alla conservazione e gestione degli elefanti. Per esempio, i dati dai collari GPS ci danno informazioni su dove gli elefanti attraversano strade e ferrovie e su dove eventualmente sottopassaggi dedicati alla fauna selvatica possono essere posizionati per mitigare gli incidenti stradali e ferroviari. A questo proposito, abbiamo contribuito a sviluppare tecnologie che ci aiutano nel seguire i movimenti degli elefanti quasi in tempo reale – Iain Douglas-Hamilton è stato un pioniere nel testare collari con dispositivi GPS sugli elefanti e di recente abbiamo lanciato la nostra app “WildTracks” che consente di tracciare qualsiasi animale dotato di un dispositivo GPS. Lavoriamo anche su deterrenti non letali per elefanti: recinzioni di alveari (visto che gli elefanti sono spaventati dalle api!) o altre barriere a basso costo possono tenere gli elefanti lontano dai campi coltivati, e rendere la vita più sicura sia per gli agricoltori che per gli elefanti. Inoltre, lavoriamo con le comunità locali in progetti di educazione ambientale, in sinergia con i valori tradizionali legati agli elefanti e al mondo naturale; e cerchiamo di formare le nuove generazioni di scienziati e conservazionisti locali. Tutto questo per progettare modelli di coesistenza tra umani ed elefanti – la nostra grande sfida di questo periodo.
Mi sembra di capire che ci sono altre minacce per gli elefanti. Ad esempio, come sta influendo il cambiamento climatico? Penso alla siccità che sta colpendo territori sempre più estesi privando questi grossi mammiferi di cibo e di acqua ….
In aggiunta alla perdita di habitat, al conflitto con l’uomo, e alla minaccia del bracconaggio per l’avorio, il cambiamento climatico certamente pone un altro potenziale rischio per gli elefanti. Sappiamo che le siccità periodiche nel continente africano causano alti livelli di mortalità naturale negli elefanti, specialmente tra i giovani e tra gli individui più anziani. Se le siccità dovessero incrementare in frequenza, durata, o intensità, questo potrebbe profondamente alterare le popolazioni di elefanti. Al momento, stiamo conducendo una ricerca su come i cambiamenti nelle precipitazioni e nella temperatura potrebbero avere effetti sulla fisiologia degli elefanti. Per esempio, temperature più alte della media potrebbero aumentare il tempo che gli elefanti impiegano per cercare ombra e acqua e al tempo stesso ridurre il tempo a disposizione per trovare cibo e socializzare. E’ un nuovo campo di investigazione, e a questo fine stiamo usando droni e telecamere ad infrarossi che ci permettono di seguire gli elefanti sia di giorno che di notte.
Vedo che il tuo lavoro per la conservazione degli elefanti ti impegna praticamente sempre. Vivi a Samburu con tua moglie che è keniana. Ogni quanto tempo riesci a tornare in Italia?
Raramente. I miei genitori preferiscono venirmi a trovare a Samburu piuttosto che incontrarmi a Roma!
