Massacrata da 29 coltellate nel 1987: il caso irrisolto della 21enne Lidia Macchi

di Michele Bartolo-

Altro crimine rimasto irrisolto rimane quello della giovane studentessa di giurisprudenza Lidia Macchi.

La sua è la storia di un barbaro omicidio, avvenuto ormai molto tempo fa. È la sera del 5 gennaio 1987 quando la 21enne di Varese scompare, per poi essere ritrovata cadavere due giorni dopo, massacrata da 29 coltellate.

Da quel momento le indagini seguono più di una pista. Ma nessuna di esse ha mai condotto al colpevole. La donna, capo scout della sua parrocchia e attivista di Comunione e Liberazione, era una ragazza piena di vita e di valori, profondamente cattolica.

La sera in cui si persero le sue tracce, era andata a fare visita, con la Fiat Panda del padre, a una cara amica ricoverata presso l’ospedale di Cittiglio, in provincia di Varese. Proprio a due chilometri da lì, la mattina del 7 gennaio 1987 venne avvistata la macchina, accanto alla quale la giovane giaceva a pancia in giù, priva di vita, straziata dalla follia omicida del suo carnefice.

L’autopsia confermò che Lidia, prima di essere ammazzata, subì o ebbe in modo consensuale il suo primo rapporto sessuale. Ma chi si è macchiato di un omicidio così efferato, ponendo fine alla vita di una ragazza buona, tranquilla, giovane e senza nemici?

La domanda, dopo quasi quarant’anni dal delitto, rimane senza risposta. Anche l’arma non è stata mai ritrovata e neanche individuata.

Il primo iscritto nel registro degli indagati fu un sacerdote 38enne, Don Antonio Costabile, amico della vittima, con cui si frequentava negli ambienti cattolici. In particolare, attirò l’attenzione degli investigatori una frase trovata scritta nel diario di Lidia, in cui si alludeva ad un “amore impossibile”, facendo quasi intendere una possibile relazione sentimentale tra i due.

Ma dalle ipotesi suggestive alla formulazione di una accusa circostanziata ce ne passa e così il prete venne estromesso dai potenziali sospettati. Una seconda ipotesi accusatoria si basò sulla possibilità di un delitto conseguente ad uno stupro, commesso da uno sconosciuto, un maniaco del luogo che era stato avvistato nel parcheggio dell’ospedale qualche giorno prima del delitto e di cui si elaborò un identikit.

Ma anche questa ipotesi si rivelò inconsistente, dal momento che la persona descritta non venne mai identificata. Le indagini continuarono nel settore degli ambienti religiosi frequentati dalla vittima e nel giro delle sue amicizie, ma nulla di rilevante emerse.

Nel 2013, però, si tornò a parlare del caso di Lidia Macchi. Questa volta con un nuovo indagato: un ex imbianchino di 58 anni, Giuseppe Piccolomo, arrestato nel 2006 per omicidio colposo della moglie e condannato all’ergastolo nel 2011 per l’omicidio dell’82enne Carla Molinari nella sua casa in provincia di Varese, dove fu anch’essa selvaggiamente accoltellata.

Sembrò essere la pista giusta, perché il sospettato, nell’epoca temporale in cui fu compiuto il delitto Macchi, aveva la residenza nella zona vicina al luogo del crimine, oltre ad avere una certa somiglianza con l’identikit del maniaco del parcheggio elaborato dalla Procura.

Anche quest’ultimo sospettato, però, si rivelò estraneo all’omicidio, in quanto non vi era corrispondenza tra il suo DNA e quello dell’assassino rilevato su alcuni reperti biologici rimasti sul corpo della vittima.

A distanza di un anno, la svolta. Il caso riaprì sulla base di un fatto che risaliva al 10 gennaio 1987 e che portò sulla scena un nuovo (e ultimo) indagato, Stefano Binda, allievo dello stesso liceo in cui studiò Lidia e compagno di Comunione e Liberazione. Anche qui, come nel caso della pagina di diario, gli inquirenti furono ingannati dalla presenza di una lettera anonima inviata alla famiglia della vittima, “In morte di un’amica”, erroneamente attribuita all’uomo, nella quale di parlava di morte e di agnello sacrificale, riferendosi appunto alla triste fine di Lidia.

Partì quindi un lungo procedimento giudiziario, anch’esso frutto di una ipotesi inconsistente e fallace, nonché fondata su presupposti erronei, ma questa volta all’origine di un iter processuale che, ancora oggi, costituisce la più grande sconfitta per la Giustizia di uno Stato di Diritto. Ed  infatti, Stefano Binda venne dapprima arrestato nel 2016 e poi condannato all’ergastolo nel 2018 per omicidio volontario aggravato, salvo poi essere assolto, udite udite, con formula piena per non aver commesso il fatto nel successivo luglio dell’anno 2019, sentenza di appello poi confermata dalla Suprema Corte nel 2021.

Nel frattempo, però, il Binda aveva passato ben 1286 giorni in carcere e da innocente, secondo la pronuncia finale della Giustizia Italiana.

Il suo caso, un caso nel caso, ci fa riflettere non solo sulla inconsistenza di alcuni teoremi accusatori, inizialmente suggestivi, che poi si infrangono alla prova della realtà, ma anche sulla dubbia costituzionalità del sistema di carcerazione preventiva, in un sistema giuridico che dovrebbe tutelare ciascun imputato di un reato, nell’ottica della prevalenza della presunzione di innocenza sino a prova contraria.

E, nel caso di Binda, la prova contraria ha costretto lo Stato Italiano, che con i soldi di noi contribuenti ha finanziato indagini e un processo lungo e infruttuoso, a risarcire l’uomo per i tre anni e mezzo ingiustamente passati in carcere con la somma di circa 300.000,00 euro, ristoro poi annullato di recente, nel giugno del 2023, sulla base del presupposto che l’uomo “con i suoi silenzi avrebbe contribuito all’errore sulla sua carcerazione“.

Tuttavia, a prescindere dalla circostanza che la magistratura tenti sempre di autoassolversi, ciò che è certo è che il corpo riesumato di Lidia, nel 2017, parlò chiaro: i quattro peli ritrovati sul pube non appartenevano a Binda, così come non vi era corrispondenza tra i resti dei reperti e il Dna dell’uomo.

Nel frattempo, si fece anche vivo il vero autore di “In morte di un’amica”, estraneo alla famiglia così come ai fatti, il quale compose quei versi spinto soltanto dal desiderio di rendere omaggio alla giovane barbaramente uccisa.

Cala il sipario quindi su Stefano Binda e tristemente anche su Lidia Macchi.  Le ipotesi sono le medesime della partenza. Bisogna ripartire da zero. A volte accade, ma non dopo quarant’anni.

Michele Bartolo

Avvocato civilista dall'anno 2000, con patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori dal 2013, ha svolto anche incarichi di curatore fallimentare, custode giudiziario, difensore di curatele e di società a partecipazione pubblica. Interessato al cinema, al teatro ed alla politica, è appassionato di viaggi e fotografia. Ama guardare il mondo con la lente dell'ironia perché, come diceva Chaplin, la vita è una commedia per quelli che pensano.

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