Storia e tradizioni dei dolci natalizi napoletani

di Giuseppe Moesch*

Dai monasteri alle tavole dei nobili fino a quelle odierne questi dolci hanno segnato il divenire della fama della pasticceria partenopea che tuttavia subì un ulteriore miglioramento dall’arrivo a Napoli dei cuochi francesi voluti dalla regina Carolina, allo scopo di adeguare la cucina ai suoi raffinati gusti mitteleuropei, e di alcuni pasticcieri svizzeri e austriaci o piemontesi; vale appena nominare i Caflish dal 1825, i Van Bol e Feste dal 1890 e Gay Odin, cioccolatiere che nel 1898 proveniente dalla Val Pellice apre il suo laboratorio, ma la sostanza resta quella stratificata nella storia del reame.

Gli Struffoli

Il primo dolce che non può mancare sulla mensa natalizia è certamente il vassoio degli struffoli, un piacere per gli occhi, prima ancora che per il palato.

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Viene giustamente considerato napoletano, anche se esistono versioni simili in tutto il mezzogiorno, ma in realtà essi sono di origine greca, palline di pasta dolce fritte nello strutto o nell’olio d’oliva, ripassate nel miele con i riavulille, piccoli confetti di zucchero, alcuni aromatizzati all’anice, ed arricchite da frutta candita, scorzette di arancia, di cedro e di scocozzata ovvero polpa di zucca candita con un processo elaborato. Normalmente vengono presentati in forma di ciambella, anche se in alcuni casi come un montarozzo.

Di origine greca erano gli “strougolos” conditi con miele di acacia. Ed ancora oggi per i vicoletti delle città greche è possibile gustare i loro eredi detti “loukomades” e in turche “lokma” ambedue traducibili con il termine boccone, perché si suggerisce di mangiarlo così. Ovviamente i romani, che seppero prendere sempre il meglio dalle popolazione assoggettate, se le ritrovarono non solo in quei paesi ma già anche a Napoli ed in Spagna dove in Andalusia, in forma di cilindretti, venivano chiamati “pinonate”. Quindi l’attribuzione di paternità è in effetti ancestrale, perché con le materie prime disponibili, era facile produrre quasi sempre gli stessi prodotti con variazioni di poco conto.

Quello che sappiamo con certezza è che, dal 1700, le monache del Convento delle trentatré fondato da Maria Longo nel ‘500, dedicato a Santa Maria di Gerusalemme, che ospitava trentatré suore, quanti gli anni di Gesù, provenienti dalle migliori famiglie nobili napoletane, cominciarono a riproporre quei dolci spagnoli da offrire come regalo per il re e per i propri familiari.

La versione arrotondata come oggi la conosciamo, fatta di palline piccole perché potessero accogliere maggiori quantità di sciroppo di miele, viene riproposta nel Convento di Croce di Lucca che aggiungono anche i confettini. Le piccole palline vengono ricavate da un tocco della pasta preparata che viene lavorata in forma di salsicciotto come si fa anche per gli gnocchi, o meglio i “cicatielli”, e la tradizione religiosa associa a quel salamino o serpentello la figura del demonio che viene così ucciso e fatto a pezzi.

I roccocò

Altra presenza imprescindibile sono i roccocò, il cui nome evoca solo a sentirlo la ruvidità del prodotto, lo associamo subito ad una roccia, per il colore bruno, per la durezza, per la forma che ricorda lo stile architettonico omonimo.

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Il profumo poi, è facilmente evocativo di sentori orientali e ciò è dovuto alla presenza del pisto; molto spesso a questo termine sconosciuto nel mondo non può essere associata una lista completa di componenti, perché questi, a meno di alcuni indispensabili, possono essere addizionati altri a discrezione del preparatore, così come avviene per il curry. Certo non potranno mancare cannella, anice stellata, noce moscata, chiodi di garofano, pepe bianco, e coriandolo, tutti pestati, da cui il nome, in un mortaio rigorosamente di marmo, altrimenti potrebbe assorbire gli umori di altri contenitori. Non c’è una definizione quantitativa della varie componenti per cui un roccocò o altro dolce preparato da un forno non avrà mai lo stesso sapore e profumo di quello prodotto da un altro pasticciere.

In passato venivano attribuite, a questo mix di spezie anche capacità curative del raffreddore o dell’influenza.

La forma è quella di una ciambellina di una decina di centimetri, che oggi si trova anche ridotte a cinque, considerate ile ridotte capacità ingurgitative dei consumatori costantemente a dieta ed anche per la loro durezza che spesso suggerisce di mangiarli inzuppati nel vino dolce o nei liquori, in passato i rosoli di cui il più noto è il limoncello, ma che vengono riscoperti oggi e che sono preparati con altre erbe o radici dal basilico alla liquerizia.

L’impasto è assai semplice ed è composto da zucchero, farina, mandorle, canditi e pisto e si dice che sia stato realizzato nel Convento di Santa Maria Maddalena dalle Suore Agostiniane nell’omonimo quartiere. Oggi il convento non esiste più.

I susamielli

Altro dolce Natalizio napoletano sono i “susamielli” o “sapienze” antichi dolci greci “miulloi” a base di sesamo, da cui deriverebbe il nome, e miele usati come offerte rituali per Demetra e Core per propiziare la fecondità, anche se citati per la prima volta nel 1690 furono riproposti già dalle Monache Clarisse del Convento di Santa Maria della Sapienza, ed anche in quello di e Donna Regina.

Lo snobismo o se si vuole anche un pizzico di razzismo caratterizzò la vita di questo dolce che veniva preparato in tre diverse versioni sulla base dei destinatari.

C’era una versione diciamo di lusso, in cui veniva usata la farina bianca, mandorle tritate e pisto, tutti prodotti costosi e quindi destinati ai nobili delle famiglie d’origine delle monache; queste ne preparavano anche due altri due tipi quelli con le scorze degli agrumi ed una farina poco abburattata e un’altra versione preparata con la marmellata, destinata quest’ultima ai “monaci cercanti”, ovvero a quei questuanti che riempivano le strade delle città, mentre la prima veniva usata come regalo accessorio agli zampognari. Questa figura

tipica del presepe napoletano in realtà ancora oggi si vede nelle vie delle città ma appare quasi una figura folcloristica tuttavia in passato avevano un ruolo assai significativo. Essi suonavano le nenie natalizie per le strade e ricevevano piccoli oboli dai passanti, ma principalmente venivano invitati a casa delle persone benestanti a suonare la novena davanti ad un altarino o ad una immagine sacra, in presenza della famiglia che ascoltava con devozione la musica che oggi si definirebbe “live”, e ciò accadevo ogni giorno per i nove giorni prima di Natale, cioè l’avvento, e da qui il termine novena.

Gli zampognari venivano normalmente dalla zona dell’alta Irpinia. Essendo pastori per i quali la zampogna, fatta di pelle di capra o di pecora era uno strumento tradizionale insieme alla ciaramella, con la quale formava il duo che si esibiva in giro. Ancora oggi, nelle aree interne della Campania, con importanti insediamenti industriali e una vivace vita moderna, vi sono famiglie attaccate a quelle tradizioni che manifestano la loro fede patriarcale continuando la ad invitare i suonatori a casa.

La forma ad esse di quei dolci ricorda anche in questo caso il serpente, ovvero il diavolo, il male che viene sconfitto dalla divinità e che è stato riprodotto nella tradizione cristiana.

I raffiuoli e i raffiuoli a cassatina

I raffiuoli nascono probabilmente nel Monastero di San Gregorio Armeno e sono semplici pezzi di pan di spagna ricoperti con glassa di zucchero; la loro evoluzione in raffiuoli a cassatina, dovrebbero essere nati nel Monastero di Santa Chiara o forse più probabilmente in quello del convento di Santa Patrizia. Proprio a queste ultime religiose, il re Carlo III, che aveva trascorso la sua gioventù tra Parma e Piacenza a dove aveva apprezzato molto quella cucina ed aveva una spiccata predilezione per i ravioli, da cui i raffiuoli deriverebbero il loro nome, discutendo con la badessa della qualità di quella pasta ripiena, le propose di fare di meglio. Considerata la fama che quelle monache avevano fecero nascere questi dolci, che nel tempo furono anche ricoperti di cioccolata, e furono esaltati quando furono ricoperti di ricotta lavorata con lo zucchero, canditi e pezzettini di cioccolata ed un pezzetto di pasta di pistacchio.

Già a Napoli era stata importata dalla Sicilia la cassata, che aveva subito una importante modificazione, sia nella costruzione che negli ingredienti, infatti alla ricotta di pecora venne preferita quella vaccina, e invece delle listarelle di pan di spagna venivano sovrapposti dischi di quella sfoglia e veniva composta in maniera più sobria e meno barocca.

I mustaccioli

C’è un proverbio latino che recita: “loreolam in mustace quaerere”, ovvero cercare l’alloro nei mustacei, come si chiamavano a Roma le focaccine a forma di losanga, impasto di farro, aneto, cumino, strutto e cacio condito con il mosto cotto, che si cuocevano al forno avvolte in foglie di alloro; le foglie avevano il duplice scopo di proteggere il dolce e bruciando diffondere l’aroma della pianta sacra agli Dei, profumando l’offerta utilizzata durante i riti nunziali.

Ne parlavano antichi poeti, Giovenale, Cicerone e Catone, che ci fanno sapere che veniva donati agli ospiti che lasciavano la casa in segno benaugurante, ed è forse a quella antica ricetta che si ispirano quelli prodotti in Abruzzo, detti “murzitti”, privi di cioccolata, che arriva in Europa dopo la scoperta dell’America, con noci macinate, uvetta, mosto di vino, zucchero e miele.

Più fantasiosa l’ipotesi che il nome possa derivare dalla parola francese “moustache” ovvero baffo in francese per la forma normalmente di rombo, circa 10–12 cm, anche se oggi se ne producono di più piccoli, oggi sono prodotti aggiungendo il pisto che conferisce, come l’alloro in passato, un forte aroma.

I “Divini muorz”

Meno diffusi rispetto agli altri questi “muorze” ovvero bocconi di Natale, furono realizzati in occasione del Natale nel 1512 dalle monache benedettine di Santa Maria ad Agnone, come forma di ringraziamento, di nuovo un “disobbligo”, nei confronti del Viceré Bernardo de Villamar, fu questo spagnolo infatti a concedere la concessione per la costruzione del Monastero per quelle religiose.

Anche in questo caso la materia prima era particolarmente preziosa trattandosi infatti mandorle e marmellata di albicocche, e ricoperti di glassa di zucchero bianca.

I dolci del divino amore

Molto simili ai “muorz”, questi dolci fatti di pasta di mandorla ricoperti di zucchero si dice fossero state prodotti dalle monache del Divino Amore nel XIII secolo per Beatrice di Provenza. Tuttavia poiché Il monastero fu costruito nel XVI secolo quindi è più probabile che essi siano nati nel Monastero di San Gregorio Armeno, come i cosiddetti fruttini di metà del settecento per farne dono a Ferdinando IV a forma di stella o di luna rielaborazione della frutta Martorana.

Tutti i popoli del mediterraneo hanno condiviso le esperienze alimentari prodotte da materie prime simili per la omogeneità delle aree in cui sono vissuti, ed il risultato, dopo migliai di anni, e gradito ancora oggi da tutti.

Le pretestuose divisioni, partendo da radici comuni sono generate solo dalla smania di potere di alcuni individui, e solo il mancato isolamento di quegli stolti, porta alle tragiche conseguenze a cui assistiamo.

Dovrà essere cura di chi governa trascurare i propri biechi interessi e portare tutti verso condizioni di reciproco rispetto.

 

 

*già Professore Ordinario presso l’Università degli Studi di Salerno

Giuseppe Moesch Giuseppe Moesch

Giuseppe Moesch

Napoletano, già professore ordinario di Economia Applicata, prestato alla politica ed alle istituzioni nazionali ed internazionali, per le quali ha svolto incarichi e missioni viaggiando in quasi cinquanta Paesi attraversando l’umanità che li popola. Oggi propone le sue riflessioni scrivendo quando non riesce a capire quelle degli altri.

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