Antropologia dei programmi politici: la destra e la sinistra che cambiano
di Pierre De Filippo-
Una volta, un programma politico non sarebbe stato il mero prodotto di un’analisi scientifica, posto che davvero di queste analisi vi sia traccia; sarebbe stato, invece, il frutto di una ideologia – potentissimo strumento di legittimazione – che non indicava solo una strada, un sentiero, una direzione di marcia, indicava un modo di concepire l’umana convivenza, i fondamenti della vita in comune, dello stare insieme.
I programmi avevano un peso infinitesimale ed una portata marginale proprio per questo: si votava comunista e non c’era bisogno di aggiungere altro, si votava scudocrociato ed altrettanto le proprie idee erano chiare e sottintese. E così, via via, per tutte le altre forze, legittimate sempre su base ideologica e ideale.
Da qualche decennio – dalla secolarizzazione, dal riflusso, da quel periodo lì – l’ideologia è stata ormai archiviata e la democrazia dell’opinione è stata superata da quella del sapere (oggi abbiamo abbandonato anche il sapere in nome del “non sapere”, ma questo è un altro discorso).
I programmi, quindi, sono riemersi dalle loro fangose paludi e sono assurti a strumenti dichiaratamente essenziali, formalmente indispensabili, enfaticamente illuminati. Salvo poi essere abbandonati e dimenticati non appena i voti si tramutano in seggi e le promesse di uomini d’onore in promesse di marinai.
Ciononostante, però, c’è una interessante analisi – che definirei quasi antropologica – che può essere fatta e che, in qualche modo, spiega posizionamenti, accenti, interessi e priorità.
Scorrendo il programma, ancora abbozzato, del Partito democratico emergono esempi interessanti: Ddl Zan, matrimoni egualitari, ius scholae, legalizzazione delle droghe leggere, fine vita.
Molti di questi sono temi davvero importanti e che coinvolgono più ambiti: oltre a quello morale – che la sinistra continua a ritenere prioritario – anche quello economico, quello sociale, quello sanitario.
Temi importanti che hanno un minimo comun denominatore: sono espressione di un marcato individualismo minoritario. Mancano le lotte comuni, manca il grande coinvolgimento delle masse, mancano i temi per così dire maggioritari, quelli che toccano e riguardano ampie fasce della popolazione.
E i sondaggi testimoniano questa tendenza al particolarismo.
Dall’altra parte il centrodestra, che invece fa una battaglia specularmente opposta: fobico rispetto a tutto quanto comporterebbe un accrescimento dei diritti dei singoli, come se questo equivalesse a sottrarli a qualcun altro, è alle folle che si rivolge, con fare palesemente corporativo: privatizzare gli utili e socializzare le perdite, è il caso di quota100, è il caso dell’ennesima pace fiscale, è il caso delle partite Iva e dell’ormai celeberrima flat tax, è il caso delle politiche migratorie fatte per rassicurare qualcuno più che per gestire un fenomeno.
Una sorta di corporativismo di retroguardia, che ragiona per compartimenti stagni e senza una grande prospettiva di lunga durata.
Qui le masse ci sono ma sono ben classificate e ad ognuna è dato il proprio cioccolatino, noncuranti del fatto che questo potrebbe portare a politiche tra loro contradditorie e alternative.In questo gioco a parti invertite, dove la sinistra si occupa dei singoli su battaglie di nicchia e la destra di masse su battaglie di parte, anche la geografia dei comuni pare più che ribaltata.
Sono sette i capoluoghi di provincia toscani ad avere un sindaco di destra, contro i tre del centrosinistra e sono nove quelli lombardi andati al Partito democratico e due al centrodestra.
Dati inimmaginabili fino a qualche anno fa. Ed anche questo è il simbolo del tempo che passa e di un Paese che, anche se spesso inconsapevolmente, si trasforma.
