Francesco II, una provocazione?

-di Giuseppe Fernicola-

Viene alla mente, in questi giorni, la profezia di Francesco II  di Borbone sul destino dei napoletani a causa del dominio piemontese.

Voi sognate l’Italia e Vittorio Emanuele, ma purtroppo sarete infelici. I napoletani non hanno voluto giudicarmi a ragion veduta; io però ho la coscienza di avere fatto sempre il mio dovere, ad essi rimarranno solo gli occhi per piangere.

Viene alla mente la figura di quello che fu l’ultimo regnante di casa Borbone mentre il cardinale Sepe ottiene dai vescovi della Campania, nell’ultima sessione della Curia Episcopale, parere favorevole ad aprire sulle virtù eroiche del defunto ed afferma che questa è la prova che “Dio interviene nella storia della nostra città e della nostra regione”.

Affermazione invero un poco impegnativa anche per l’Altissimo, di cui possiamo immaginare lo sconcerto.

Stesso sconcerto che manifesta Ciro Romano, postulatore delle cause dei Santi esprimendo le sue perplessità in punta di diritto canonico ma a noi, che di diritto canonico siamo digiuni, interessa più che la beatificazione dell’uomo la sua statura politica.

Senza voler fare dell’ironia potremmo affermare che Francesco si avvierebbe a confermare di essere “figlio d’arte” essendo sua madre, Maria Cristina di Savoia, morta a 24 anni di parto, dichiarata prima venerabile da Pio IX nel 1859, anno in cui Francesca succedette al padre, e poi beata nel 2014 da papa Bergoglio.

Fu Francesco II, il re di Gaeta, o piuttosto il Franceschiello come gli invasori sabaudi (a questo punto anche la storia ha dovuto rivedere quella pagina) lo appellarono?

Di certo non ne aveva grande stima Benedetto Croce che nella Storia del Regno di Napoli (Adelphi) lo appellò “inetto, ossessionato dalla religione cattolica, bigotto, segnato da un’ irrimediabile pochezza di carattere, un fantasma della storia incapace di impennate d’orgoglio”, salvo ricredersi in parte a seguito del comportamento del re a Gaeta.

Sempre Croce, mai tenero coi Borbone, per onestà intellettuale, dovette ammettere che forse il nuovo stato, almeno dal punto di vista dei diritti umani, non rappresentava un gran cambiamento, come si legge in una lettera a Vilfredo Pareto del 1898:  “Non so se nelle carceri e nei reclusori i condannati politici della nuova Italia stiano meglio o peggio dei nostri condannati politici dei Borboni, i quali (almeno gli ergastolani di Santo Stefano, come il Settembrini e lo Spaventa) ricevevano ogni sorta di libri (e lo Spaventa quelli, pericolosi e rivoluzionari allora, di filosofia tedesca), e studiavano e scrivevano: laddove ai nuovi condannati anche questo conforto è tolto“.

Ma per tornare al Nostro, credo sia difficile un giudizio storico sul suo regno sia per la brevità, meno di due anni, che per la giovane età alla quale lo ereditò, soli 23 anni, succedendo a cotanto padre.

Nel bel romanzo-saggio forse troppo elegiaco, di Gigi Di Fiore, L’ultimo re di Napoli, c’è il ritratto di un re giovane e sfortunato, catapultato sul palcoscenico di una storia, quella del Risorgimento, destinata a grandi cambiamenti, capaci di ridiscutere la stessa geopolitica.

Ma più ancora parla per Francesco il suo editto al popolo napoletano che disegna il profilo di un uomo onesto, travolto dagli eventi che non gli hanno dato il tempo di dimostrare nei fatti l’amore che dichiara per Napoli e per il suo popolo.

 Io sono Napolitano; nato tra voi,  non ho respirato altr’aria,  non ho veduti altri paesi, non conosco altro suolo, che il suolo natio. Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno: i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua la mia lingua, le vostre ambizioni mie ambizioni”.

Ed ancora: “ In mano a cospirazioni continue non ho fatto versare una goccia di sangue; ed hanno accusata la mia condotta di debolezza. Se l’amore più tenero pei miei sudditi, se la fiducia naturale della gioventù nell’onestà degli altri, se l’orrore istintivo al sangue meritano questo nome, io sono stato certamente debole.”.

Forse possono bastare queste poche frasi stralciate dal suo più lungo discorso, se non a sancirne la santità, almeno ad assolverlo per non aver commesso il fatto.

Sarà curioso conoscere quali miracoli ha fatto l’ultimo re di Napoli perché, come afferma il diritto canonico per essere elevati al rango di santi c’è bisogno di fama di santità che deve essere “spontanea, non artificiosamente procurata, stabile, continua, diffusa tra persone degne di fede”.

Giuseppe Fernicola

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