La violenza è la morte della parola

di Pierre De Filippo-

“La violenza è la morte della parola”. Lo ha detto il famoso psicoanalista e saggista Massimo Recalcati nella presentazione del suo nuovo libro A pugni chiusi, edito da Feltrinelli.

La violenza è la morte della parola, è il fallimento del dialogo, vale a dire ciò che rende l’uomo una creatura diversa da tutte le altre; quel logos che, da Eraclito a Platone, dal cristianesimo a Goethe, rappresenta l’elemento su cui si fonda la nostra civiltà.

Senza dialogo siamo animali, irrazionali e selvaggi. E, in questi casi, non può che subentrare la violenza, in alcuni casi espressa, manifesta, sanguinaria, in altri fatta di silenzi, esclusioni, rancore. Ed è da Caino e Abele in poi, dice Recalcati – ospite della bella trasmissione Splendida cornice, condotta da Geppy Cucciari ogni giovedì sera su Rai3 – che questa violenza si ripete. E si ripete perché si fonda sulla pluralità. L’arrivo dell’altro – che sia Remo che infastidisce Romolo, che sia Venerdì per Robinson – è sempre motivo di tensione, di fastidio.

Ma, al tempo stesso, è proprio questo senso di insicurezza, di timore l’unico collante che ci tiene uniti, che crea comunità. D’altronde, polis, città, polites, cittadini e polemos, guerra, hanno la stessa radice.

Ciò che crea comunità, che crea città, che ci rende cittadini – e quindi ci impone di sottostare a regole valide per tutti – è la paura della guerra, dell’aggressione. Del nemico. Dell’altro.

Certo è che, pensandoci bene, il fatto che oggi dilaghi la morte della parola è paradossale, visto quanto siamo e riusciamo ad essere interconnessi. Smartphone, Apple Watch, social. Abbiamo accesso alla maggiore quantità di informazioni, di dati, di documenti della storia del mondo. Tutto a portata di un clic. Con un clic possiamo osservare la Gioconda dall’interno del Louvre, possiamo ordinare da mangiare, possiamo scommettere sul calcio (attività oggi inflazionata), possiamo acquistare un biglietto aereo, possiamo cercare un partner occasionale.

Possiamo fare tutto e facciamo tutto tranne confrontarci, discutere, ammettere l’esistenza dell’altro e la sua mente pensante. È l’individualismo che diventa solitudine.

E una guerra, come quelle che stiamo vivendo in questi giorni, in queste settimane, in questi anni, cos’altro è se non la morte della parola? Cos’altro è se non smettere di considerare le ragioni degli altri. Siamo sempre, tutti, miopi nell’osservare i nostri errori e ipermetropi nell’osservare quelli degli altri. Ma così lontano non si va.

Ed è opportuno, alle volte, ragionare di massimi sistemi per evitare di autoconvincerci che tutto sia contingente, che tutto dipenda dal fatto che la bomba sia esplosa o che il razzo abbia colpito.

È capitato. Così come capitano tante cose. Si litiga e ci si accoltella, ci si spara. È capitato. Un raptus. Ed invece, se ragionassimo un po’ di più di massimi sistemi, se qualche istante in più ci fermassimo a ragionare su di noi, sul nostro essere, sul contesto nel quale viviamo, sugli altri, probabilmente acquisiremmo quegli anticorpi che ci permetterebbero di sostituire la razionalità all’impulsività, la ragione all’isteria, il “noi” al “me”.

Per dialogare ci vuole coraggio, senza dubbio. Perché presuppone non solo di riconoscere l’altro ma anche di attribuirgli delle qualità, dei caratteri. Perché ci impone di costruire un tavolo, che ci separa ma che ci tiene insieme e che è ciò che legittima entrambe le parti a prendere parola.

Dialogare è impegnativo perché ruba tempo, energie e risorse.

Dialogare è, talvolta, frustrante perché serve una pazienza che nemmeno Giobbe.

Dialogare è difficile, perché ogni testa ha al suo interno un mondo.

Ma è l’unica cosa che possiamo fare, per noi stessi e per gli altri. Per la pace.

Pierre De Filippo Pierre De Filippo

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