Provenzano, Riina, Denaro: i “padrini” che hanno vissuto indisturbati nei loro regni
-di Elvira Morena
La cattura de “l’ultimo padrino”, così come viene definito Matteo Messina Denaro, ha sollevato molteplici perplessità nella pubblica opinione. Mentre tra le Forze dell’Ordine, cui va il nostro plauso, e nei Palazzi della politica s’intonava l’inno di Mameli, i 30 anni di latitanza del boss e la cattura nella sua terra d’origine sono apparsi addirittura inquietanti.
E’ stato quasi naturale chiedersi: “Possibile che un fantasma dalla storia ingombrante abbia vissuto indisturbato in un piccolo centro, quale Campobello di Mazara del Vallo? E nell’arco di un anno si sia recato con un nome in prestito nella nota clinica palermitana? “L’ultimo dei padrini” non è stato, per l’appunto, il primo.
La stessa trafila è toccata ad altri due fantasmi di Cosa Nostra: 43 anni di latitanza per Bernardo Provenzano e i 24 anni di Salvatore Riina, entrambi catturati, come Messina Denaro, in seno alla propria terra. L’Italia è un Paese in cui le Forze di sicurezza sono in grado di ingabbiare qualsiasi criminale; ne hanno i mezzi, le intelligenze e le professionalità.
Lo Stato ha spento il fuoco alle Brigate Rosse in un tempo relativo di circa dieci anni. Nate negli anni ’70, nel 1980 le BR erano quasi definitivamente estinte. Le mafie, invece, si rigenerano, decenni dopo decenni, come lo zucchero si raffinano e come la polvere s’infiltrano. Simili a serpenti preistorici, cambiano pelle e si adattano ai nuovi sistemi di vita, ne succhiano la linfa e mai si estinguono.
La mafia dei mafiosi e la mafia degli italiani è un prodotto locale che sconfina, un fenomeno sociale che si eredita. Basta fare un salto nel passato, tra il 9 e il 10 luglio del 1943, le date storiche dello sbarco degli alleati in Sicilia.
L’operazione Husky, questo il nome in codice, liberò l’isola dal nazifascismo, servendosi dell’aiuto di noti mafiosi. E questi ultimi, dopo la legittimazione da parte dei nuovi eroi della libertà, non tardarono a diventare i padroni della Sicilia.
Oggi, più che di mafia, si parla di “area grigia” e “borghesia mafiosa”: meno impattanti ma più minacciose, in quanto poco si comprende dove si nascondano e quali panni vestano. Ma l’espressione ultima non è affatto di questi giorni.
Mario Mineo, giurista e politico siciliano, la tirò in ballo negli anni ’70 e il sociologo attivista sul fronte antimafia, Umberto Santino, ne ha ripreso e amplificato i concetti: “La mafia non è riducibile alla sua ala violenta e stracciona, piuttosto è un fenomeno trans – classista. La mafia è la peculiare declinazione del sistema capitalistico in territori con tratti specifici. Cosa Nuova ha sostituito la violenza con la corruzione.”
La cattura di Messina Denaro potrebbe essere la punta di un iceberg? Fino a oggi, il ghiaccio rimane compatto. Nell’attesa di un po’ di luce sull’area grigia, è giusto accendere un faro sulla scritta, che giace come l’epigrafe di una piccola lapide ai piedi dell’albero della memoria in Via D’Amelio, “Non tutti i siciliani sono mafiosi e non tutti i mafiosi sono siciliani.”
