Gerusalemme sta tornando ad essere una polveriera

di Pierre De Filippo-

Negli ultimi anni avevamo realisticamente sperato che quella parte del mondo in cui si combatte il più lungo, odioso e iconico conflitto del globo stesse per raggiungere, finalmente, una sua composizione. Con gli Accordi di Abramo – strenuamente voluti da Trump per isolare Teheran ma che qualcosa di positivo hanno comunque prodotto – Israele si era pacificata con gran parte dei suoi vicini, tutti musulmani, e questo pareva aprire una breccia per la risoluzione della sua disputa con la Palestina.

Yair Lapid, Primo ministro per qualche mese, aveva rinfocolato queste speranze ponendosi in maniera conciliante e aperturista nei confronti della soluzione più realistica: quella dei due stati.

Poi, ci sono state le elezioni di novembre: Bibi Netanyahu è tornato al potere dando vita al governo più a destra della storia israeliana – è periodo – con gli ultraortodossi nazionalisti e sionisti.

Uno dei suoi ministri più rappresentativi (ed estremisti), Itamar Ben-Gvir, poco dopo l’insediamento, aveva beatamente passeggiato lungo la Spianata delle Moschee, uno dei luoghi sacri degli arabi musulmani palestinesi, che avevano visto il gesto come una provocazione, condannandolo.

Nonostante le smentite di rito, si era già capito che la direzione presa dal governo sarebbe stata di scontro frontale e che l’escalation sarebbe stata certa.

Nel giro di pochi giorni la situazione è precipitata. Netanyahu ha proposto una contestatissima riforma costituzionale: la maggioranza parlamentare avrebbe potuto ribaltare, con un semplice voto, ogni decisione della Corte suprema, interferendo, in questo modo, con l’azione del più alto interprete del potere giudiziario.

In centomila sono scesi in piazza a Tel Aviv, chiedendosi se Israele sia, dopo questa proposta, ancora una democrazia. E questo perché proprio la corte aveva determinato la decadenza di Aryeh Deri, ministro dell’Interno e della Salute, leader di uno dei partiti estremisti ultraortodossi che sostiene la maggioranza, a causa di condanne penali che la sua fedina poteva vantare.

Senza Deri non c’è governo, si è detto.

 

Ma c’è sempre un governo se c’è un’emergenza. E se non c’è è bene che ci sia.

Così si spiegano le recrudescenze di questi giorni: a Jenin, in Cisgiordania, gli scontri hanno fatto oltre dieci morti. “Era un’operazione antiterrorismo…” si sono giustificate le autorità israeliane, ma in molti non credono a questa versione.

I palestinesi hanno reagito lanciando due razzi dalla Striscia di Gaza verso il sud di Israele, che ha riposto, a sua volta, con attacchi aerei contro siti locali.

Ma, come nelle faide, basta aspettare qualche ora.

Alkam Kairi, ventunenne palestinese, ha preso una pistola, si è presentato davanti ad una sinagoga ed ha aperto il fuoco. Ha ucciso sette persone. Poi si è dato alla fuga ma è stato catturato dalle autorità israeliane ed è morto nel conflitto a fuoco.

Che tra le due vicende vi sia un nesso strettissimo lo testimoniano le chiare parole di Hazem Kassem, portavoce di Hamas: “è stata un’azione eroica. Vendetta per le vittime di Jenin”.

Passa qualche ora ed un tredicenne – tredicenne! – palestinese spara a due israeliani, padre e figlio, prima di essere fermato.

Le ritorsioni, in questi casi, finiscono per essere infinite, soprattutto in territori in cui l’orgoglio la fa da padrone.

Netanyahu ha già dichiarato che utilizzerà il pugno duro per placare questi situazione: eliminazione di qualsiasi tipo di welfare state per i cittadini palestinesi e semplificherà le procedure burocratiche per gli israeliani che volessero dotarsi di un’arma propria.

Forse il governo Netanyahu, adesso che ha un nuovo, vecchio nemico, è salvo.

La stabilità del mondo un po’ meno.

Pierre De Filippo Pierre De Filippo

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