Trent’anni dopo: in memoria di Giovanni Falcone
di Pierre De Filippo-
Sono già passati trent’anni da quel sabato 23 maggio 1992, in cui Giovanni Falcone, la sua Francesca Morvillo e gli uomini della scorta persero la vita nell’attentato di Capaci.
Minchia, signor tenente, verrebbe da dire, già sono passati trent’anni.
Sarebbe, io credo, superfluo ricordare Giovanni Falcone con un’arida biografia, resocontando ancora una volta ciò che di buono e di grande ha fatto nella sua vita, dal quartiere della Kalsa fino a quell’arrivo a Punta Raisi, l’aeroporto che oggi porta il nome suo e quello di Paolo Borsellino.
Sarebbe superfluo e allora meglio ricordare Giovanni per ciò che ha detto, per ciò che ci ha lasciato, facendo nostra la sua eredità morale.
Uomo dai solidi valori e dalla profonda convinzione, viveva il suo lavoro come fosse un mandato: “la mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine” ma, puntualizzava, “è un fenomeno terribilmente serio e molto grave” e che si può affrontare e sconfiggere “non pretendendo eroismo da inermi cittadini ma impegnando in questa battaglia tutte le migliori forze delle istituzioni”.
Alla domanda di un giornalista: “chi glielo fa fare?”, la risposta è tanto scontata, quanto lapidaria: “soltanto lo spirito di servizio”.
Quello spirito, non solo di servizio ma anche di comunità, che dovrebbe avere ciascuno cittadino che si scontra coll’ingiustizia e con la prepotenza.
Giovanni Falcone l’idealista, quello che – per citare Paolo Borsellino – era talmente tanto folle da voler “combattere la mafia applicando la legge” ed il Giovanni Falcone amaro e realista – “questo è il Paese felice in cui se ti si pone una bomba sotto casa, e la bomba non esplode, è colpa tua che non l’hai fatta esplodere”.
Aveva ragione Totò, il principe della risata, quando diceva che “questo è un Paese bellissimo, in cui però per venire riconosciuti in qualcosa bisogna prima morire”.
Giovanni Falcone è stato attaccato, umiliato, vilipeso perché, come gli disse Alfredo Galasso, “e comunque, Giovanni, non mi piace che stai dentro il Palazzo del Governo. Non mi piace” e giù una marea di applausi dopo quella populistica affermazione al Maurizio Costanzo Show.
La lontananza delle istituzioni, l’acredine e l’invidia dei colleghi, la lunga sfilza di mortammazzati, colleghi e amici, deve avergli fatto sorgere più di qualche dubbio – come è umano che sia – rispetto a quel mandato, quasi divino, che aveva deciso di accettare.
La vera domanda che, a distanza di trent’anni, dobbiamo porci è: l’Italia è ancora oggi un Paese “mafioso”? Un Paese in cui la criminalità organizzata impera, spande e spende, senza ostacoli e senza intromissioni?
Certamente non c’è più la fase stragista, quella delle bombe e delle esplosioni, quella “strategia della tensione” ordita dall’antistato per eccellenza nei confronti dello stato.
La mafia s’è fatta fina, astuta, silente e invisibile, come predicava Bernardo Provenzano. La ndrangheta ha guadagnato terreno e, ormai, vanta dei rapporti internazionali di prim’ordine.
Ma nel silenzio, nell’oscurità. E questo deve farci ancora più paura.
C’è, però, un altro tipo di mafia, col quale ognuno di noi, vuoi o non vuoi, si scontra quasi quotidianamente.
Quando a Paolo Borsellino chiesero cosa fosse la mafia, lui rispose così: “a me lo spiegò un capomafia. Mi disse: immagini che per un concorso pubblico si presentino in tre. Il primo è preparatissimo, il migliore; il secondo gode dell’appoggio e della raccomandazione della politica; il terzo è un fesso. Sa, dottore, chi vincerà il concorso? Il fesso. Ecco, questa è la mafia”.
Sì, di strada da fare ne abbiamo ancora tanta.
