Il rumore dei silenzi
di Giuseppe Moesch*
Poco dopo le due del pomeriggio, nel piccolo giardino di casa, sotto la pergola di viti, qualche grappolo sospeso in attesa del mio intervento di raccoglitore, sempre che gli uccelli mi lascino qualche acino. Non un alito di vento, mentre sfumacchio il mezzo antico toscano che mi concedo quotidianamente, in compagnia dei miei due labrador, Margot la nera sotto uno dei tavoli e Ghilga il bianco ai miei piedi.
La piccola stazione meteo sulla mia scrivania mi segnalava 31 gradi all’interno e oltre 36 fuori, ma sotto la pergola di pampini intrecciati la sensazione appare meno pesante.
Ogni attività all’intorno era sospesa; neanche un’auto delle rare che passano di solito, ed anche gli operai che lavorano alla ristrutturazione di un appartamento in una palazzina vicina, hanno sospeso ogni attività.
Fu in quel momento che mi venne di pensare al rumore del silenzio, o meglio dei silenzi. Non ero certo il primo ad elaborare quel pensiero, ma mi resi subito conto che la mia mente aveva elaborato un concetto che viene definito un ossimoro e nello stesso tempo avevo forse inserito in esso una iperbole, ambedue quelle figure retoriche potevano essere considerare errate.
Leggo dal sito della Treccani che il silenzio viene definito come “l’assenza di rumori, di suoni, voci”: ne deriva che il rumore del silenzio è l’accostamento di termini contradditori, rumore e silenzio; e non solo, ma inoltre quello che mi lasciava perplesso era perché allora moltiplicare la parola silenzio quando la stessa viene normalmente e univocamente definita come concetto al singolare?
Sono stati tantissimi ad interessarsi del concetto di silenzio, in particolare nel mondo della musica, tuttavia anche nel fluire delle nostre parole abbiamo bisogno di pause tra l’una e l’altra, che nello scritto visioniamo come punteggiatura, divenendo incomprensibile altrimenti il senso dei suoni da noi pronunciati.
Il silenzio è assenza di suono? Senza una pausa tra un suono e l’altro, tra una parola e l’altra, non riusciremmo a capire il senso.
Quando i bambini producono dei suoni percuotendo degli oggetti si fermano di tanto in tanto per comprendere il senso del loro operare come i suonatori primordiali, per assaporare il silenzio che si è generato.
Non siamo in grado di riprodurre le musiche più antiche che ci sono pervenute, quelle sumere ad esempio, perché solo nel medioevo inizia lo sforzo per permettere agli esecutori di poter interpretare la volontà del compositore che comunque inizia ad indicare con dei segni, piccoli quadrati, una pausa tra una serie di suoni e i seguenti, e nel tempo quelle notazioni si sono moltiplicate per esprimere meglio le emozioni.
Ma il silenzio e le pause e le sospensioni sono qualcosa di più e di diverso nel divenire delle riflessioni che i diversi musicisti ne hanno dato.
Credo che neanche in un trattato di storia della musica sarebbe possibile trovare tutte le considerazioni che i grandi e meno noti musicisti hanno svolto sul concetto di silenzio, ma credo siano interessanti alcune che li hanno segnati particolarmente.
Alla figura di Beethoven associamo immediatamente l’immagine spesso proposta del cornetto acustico poggiato sul suo pianoforte; negli ultimi anni la sordità che lo aveva afflitto da sempre era divenuta estremamente invalidante per l’uomo.
Da sempre, o meglio da quando sedicenne cominciai a frequentare l’Auditorium della Rai di Napoli da poco inaugurato, dove si esibiva una delle orchestre più prestigiose a livello mondiale, la Scarlatti, cominciai a leggere, nei programmi di sala, le sintetiche biografie dei compositori le cui musiche venivano proposte, e della grave menomazione di quel grande.
Un senso di vertigine mi colpiva ogni volta che ripensavo a come la mente di quell’uomo fosse in grado di produrre dei segni sugli spartiti generati da chi non poteva ascoltare ciò che aveva immaginato; quel genio assoluto era stato capace di offrire agli uomini un prodotto sonoro generato nel silenzio in cui viveva, un suono solo immaginato, ma assolutamente vero, vibrante nelle nostre orecchie, nei nostri corpi e nei nostri cervelli, messi in sintonia con il suo, senza il tramite dei suoni che non era in grado di ascoltare.
Col passare degli anni ho riscontrato come, “si parva licet”, anche per me si stava verificando una simile condizione: ogniqualvolta dovevo scrivere un qualunque appunto o scritto formale che fosse, lo vedevo già completo nella mente, lo correggevo, e lo ascoltavo con i suoi ritmi e le sue pause, e poi lo scrivevo e lo scrivo di getto, quasi sempre senza ripensamenti.
Dal rumorosissimo silenzio della mia mente escono pensieri rappresentati sui fogli bianchi, ed oggi sullo schermo del mio computer, che esploderanno con il loro rumoroso e ritmato fluire nella mente di chi li leggerà.
La musica allora ci fa capire come non solo l’assenza di suoni ci permette di comprendere il concetto di silenzio, ma che sia proprio quello, che ci aiuta a comprendere l’essenza dei sentimenti che ispiravano l’autore, sia esso un musicista, uno scrittore, un pittore o un venditore ambulante che magnifica la propria merce, ovvero ci offre la possibilità di comprendere le impressioni che hanno mosso la nostra mente. Così nello stesso periodo che ha visto fiorire l’impressionismo come corrente pittorica, Debussy ebbe modo di affermare, come ricorda Marco Brighenti in un suo saggio, parlando della sua unica opera lirica Pelléas et Mélisande, scritta intorno alla fine del secolo XIX: “Mi sono servito, molto spontaneamente del resto, di un mezzo che mi sembra abbastanza raro, cioè del silenzio, come di un fattore espressivo e forse come il solo modo di far risaltare le emozioni di una frase”.
Lo stesso Debussy non essendoci spazio in cartellone per l’esecuzione dell’opera in forma teatrale rifiuta più volte l’offerta dell’impresario dell’Opéra-Comique, Albert Carré di una possibilità di esecuzione dell’opera in forma di concerto; Debussy rifiuta e nell’ottobre del 1896, esplicita il perché “…se quest’opera ha qualche merito, esso consiste nella stretta connessione tra dramma e musica. È chiaro che in una esecuzione concertistica questa connessione svanirebbe e nessuno potrebbe essere rimproverato per non aver colto quello che c’è sotto gli eloquenti “silenzi” di cui l’opera è disseminata”.
Ancora più intensa appare quella impostazione nel Preludio n° 10, “La cathédrale engloutie” rievocando una vecchia leggenda, sottolinea l’emersione e la successiva nuova sommersione di una chiesa con lunghi silenzi.
Oggi è normale che Direttori di grande spessore blocchino il loro gesto conclusivo di molte esecuzioni, per mantenere quell’aura che si è creata in un silenzio carico di significati emotivi e puntualmente interrotti da un applauso da parte di un o una qualche cretino/a, appartenente a quella sottospecie umana che va sotto il nome di radical chic, stufi di ascoltare qualcosa che non amano ma che vanno ad ascoltare per spirito di servizio, affinché tutti possano notare la loro presenza entusiasta, oppure ad ignoranti delle regole d’ascolto.
Personalmente ritengo che forse nessuno come Arturo Benedetti Michelangeli abbia saputo esprimere quelle emozioni in maniera così compiuta.
Il Novecento rappresentò un periodo importante nello sviluppo di nuove forme espressive musicali anche intervenendo sugli strumenti; oltre alla pesante presenza della musica elettronica, già prima c’erano stati esperimenti usando anche i suoni prodotti dagli strumenti di riproduzione dei suoni.
Nella prima metà degli anni sessanta del secolo scorso, come detto, cominciavo a frequentare l’Auditorium della Rai di Napoli da poco inaugurato, dove si esibiva l’orchestra Scarlatti, una delle più prestigiose al mondo, iniziato alla musica sinfonica da mio zio Rodolfo, grande appassionato e riconosciuto anche come grande intenditore; amico di quasi tutti gli orchestrali, e dagli stessi assai stimato, mi permise di costruire poco a poco le basi per la comprensione e il gusto di quelle opere meravigliose che fanno parte del nostro patrimonio culturale. In genere i concerti erano divisi in due parti, divise da un intervallo di circa quindici minuti, ognuna delle quali con uno o più brani. Il modesto programma di sala forniva scarne informazioni sull’autore e sugli esecutori, che comunque assimilavo con fame di conoscenza. Durante gli intervalli, proprio per il prestigio di cui mio zio godeva, avevo la facoltà di accedere al retropalco per incontrare i suoi amici orchestrali e con gli stessi intrecciava discussioni tecniche sui brani eseguiti e da eseguire e sugli autori, specialmente se contemporanei.
Credo che nessun corso avanzato avrebbe avuto per me maggiore rilevanza; seguivo in silenzio le discussioni di quei signori e assimilavo ogni loro parola. Ricordo ancora la figura minuta, austera e bonaria ad un tempo del primo violino dell’epoca, il maestro Giuseppe Prencipe, che avrei ritrovato una trentina d’anni dopo, come primo violino dell’Accademia di Santa Cecilia, che mi riconobbe e mi salutò con molto affetto, ricordando mio zio e quel periodo.
Passarono in quegli anni tutti i grandi direttori e solisti, alcuni dei quali giovanissimi, che sarebbero ascesi all’empireo di quell’arte e che ancora oggi sono acclamati in tutto il mondo. Ricordo con particolare emozione un giorno in cui assistevo alle prove di un concerto sotto la direzione straordinaria del maestro Sergiu Celibidache. Ad un certo punto smise di dirigere dicendo: “Voi siete la Scarlatti, non avete bisogno di me”.
Furono quelli per me anni straordinari e ricordo ancora la mia perplessità, come quella di tutto il pubblico presente, quando vedemmo sul palco un pianoforte privo del suo coperchio, ed il pianista iniziare a suonare pizzicando e sfiorando le corde del pianoforte dall’interno, eseguendo alcuni bravi sperimentali, non ricordo più se di Cowell o di qualche altro compositore d’avanguardia.
Gli esperimenti di Henry Cowell, aprirono la strada a molti musicisti di quel tempo, ed in particolare a John Cage, che come lo definì Schönberg: “Non è un compositore; è un inventore di genio”.
Fu un periodo quello in cui visse Cage in cui nuovi strumenti si presentarono sulla scena mondiale, il “Polyrhythmophone” o “Rhythmicon” e la “Drum machine”; l’uomo si era reso conto della impossibilità di ottenere il silenzio assoluto. Lo comprese allorché visitando la camera anecoica dell’università di Harvard, riusciva a percepire il battito del proprio cuore ed il fluire della vita all’interno del proprio corpo. Comprese che il silenzio è una condizione del suono è materia sonora, e precisa: “Il silenzio sottolinea e amplifica i suoni, li rende più vibranti, ne preannuncia l’entrata, crea suggestivi effetti di attesa e sospensione. Il silenzio è un mezzo espressivo, è pieno di potenziale significato”.
Nel 1940 compose il primo brano con questa tecnica ma la massima espressione di questa impostazione si avrà con 4’33’’, ovvero quattro minuti e trentatré secondi, cioè la durata del brano, durante il quale qualunque musicista con qualunque strumento rimane in silenzio.
Il valore temporale con 4’33’’è pari a 273 secondi, numero uguale al valore dello zero assoluto, valore praticamente irraggiungibile.
In risposta alle critiche egli sostenne che la musica non proviene più solo dall’esecutore sul palco, ma dall’ambiente circostante, dagli stessi spettatori.
Era un uomo singolare: nel 1959 partecipa come concorrente alla trasmissione televisiva “Lascia o raddoppia” presentata da Mike Bongiorno, come esperto di funghi e risponde correttamente fino alla fine vincendo gli oltre cinque milioni del premio finale.
Durante la trasmissione presenta una sua composizione, “Water Walk”, di nuovo con strumenti considerati improbabili, una vasca da bagno, un innaffiatoio, cinque radio, un pianoforte, dei cubetti di ghiaccio, una pentola a pressione e un vaso di fiori.
Ovviamente la performance lascia interdetti sia il presentatore e gli astanti, sia i telespettatori.
Al momento del commiato Mike chiede a Cage cosa intende fare se restare in Italia o tornare in America e Cage risponde ringraziando gli italiani, che lascia in Italia la sua musica e lui ritorna in America. La risposta di Mike fu la misura dell’incomprensione di quasi tutto il Paese: .: “Ah, lei va via e la sua musica resta qui, ma era meglio il contrario: che la sua musica andasse via e lei restasse qui”.
Nello stesso periodo, Robert Rauschenberg, il pittore amico e amante di Cage, nel 1951, aveva preso a produrre una serie di quadri bianchi, ma che cambiavano di tonalità a seconda delle condizioni di luce dell’ambiente di esposizione, riaffermando gli stessi concetti espressi in musica dal suo compagno di vita.
Grandi musicisti ci hanno permesso, di comprendere in parte il silenzio, con le loro opere, per sottrazione ed assenza, il loro concetto, la loro idea e la loro interpretazione, altrettanto hanno saputo fare altri geni attraverso i segni lasciati su una tela.
Chi si sia trovato ad Oslo, nella vecchia sede della “Nasjonalgalleriet”, al secondo piano, alla fine di un lungo corridoio, nei due piccoli ambienti dedicati alle opere di Edward Munch, avrebbe potuto ascoltare il potente “Urlo” proveniente dalla tela rappresentante un uomo che è la rappresentazione della disperazione umana.
I tratti sono indefiniti; non si comprende se sia un uomo o una donna la figura che si porta le mani al volto ed urla, circondata dal mare con un’isola ed al margine una coppia.
C’è tutta la tragedia del mondo, il dolore dell’umanità, della terra, anticipando le tragedie che avrebbero segnato il secolo che stava per nascere.
Il quadro è stato dipinto nel 1893 ovvero nello stesso periodo in cui Debussy affrontava il silenzio, e dalla muta tela, Munch fa emergere il suono tremendo di un urlo che schianta, che sentiamo dentro ancora oggi, quando assistiamo alle scene di dolore provenienti dall’Ucraina, dalla striscia di Gaza, dalle madri degli ostaggi di Hamas, dai profughi del Sudan o del Congo o del Myanmar, dai terremotati dell’Afghanistan, dai bambini minatori.
La cosa più interessante e che nella saletta precedente vi era una delle copie originali della statua del “Pensatore” di Rodin.
L’impressionismo aveva in qualche modo ispirato i musicisti, mentre Munch, etichettato inizialmente come naturalista ovvero come appartenente al filone guidato da Gauguin, approda all’espressionismo collegabile a Van Gogh.
Il silenzio del giardino di casa è molto prossimo a quello di Cage, e nello stesso tempo assai diverso da quello di un vicolo di Trequanda, cittadina Toscana, dove nelle stesse ore calde solo raramente risuonano i passi di qualche raro viandante, o di quello sonnolento di Cetara, dove solo lo stridulo grido di un gabbiano, o le zuffe di gatti in amore sottolineano il silenzio.
Forse ho capito che non ho espresso un ossimoro e non ho sbagliato usando il plurale.
*già Professore ordinario presso l’Università degli Studi di Salerno







