L’amore al tempo dei like

di Nicola Olivieri-

Nell’epoca della comunicazione veloce, continua e ipersintetica, i social network non si limitano più a veicolare contenuti: influenzano attivamente il modo in cui ci relazioniamo, ci emozioniamo e perfino il modo in cui crediamo di sentire. Non si tratta solo di fake news o disinformazione, ma di qualcosa di più sottile e pervasivo: l’alterazione delle percezioni emotive attraverso l’uso costante, spesso sproporzionato, di emoji, abbreviazioni e reazioni automatiche.

Siamo passati dal dialogo alla reazione, dal confronto alla simbologia. E in questo processo qualcosa si è perso: il contesto, le sfumature, la realtà emotiva autentica.

Il potere delle emoji in un linguaggio emotivo fluido e ambiguo

Nate per rendere più “umano” e più veloce lo scambio digitale, le emoji si sono presto trasformate in un linguaggio autonomo e dotato anche delle proprie ambiguità, come è in ogni lingua. Un cuore può significare mille cose. Una risata può essere affetto, ironia, scherno, o semplice partecipazione passiva. E chi riceve quei simboli tende a interpretarli secondo le proprie aspettative, il proprio bisogno di connessione e le proprie fragilità.

Uno studio del 2021, pubblicato su Computers in Human Behavior, mostra quanto l’uso e la lettura delle emoji siano tutt’altro che universali. Il significato cambia in base al tipo di relazione, al tono con cui è stato inviato il messaggio e persino al momento della giornata. È un codice che funziona solo se condividiamo le stesse chiavi interpretative – e questo, nella maggior parte dei casi, non avviene.

Come osservava la sociologa Zeynep Tufekci nel suo Twitter and Tear Gas, “i simboli acquisiscono potere non tanto per il significato intrinseco, quanto per il modo in cui le persone li riempiono di significato soggettivo”. Questo vale anche — e soprattutto — per le relazioni affettive, dove bastano pochi segnali sbagliati per costruire interi castelli di aspettative.

Infatuazioni virtuali, quando un cuoricino crea una storia d’amore

Sui social, una bella foto, un tono ammiccante, un uso sapiente di emoji e like possono bastare per creare l’illusione di una vicinanza. Non sono rari i casi in cui un semplice scambio digitale si trasforma in un’infatuazione vera e propria, costruita su segnali simbolici, su una narrazione interna che prende forma nel silenzio dell’assenza fisica.

Guy Winch, psicologo e autore di una nota conferenza TED sul tema, spiega che “le persone non si innamorano di chi hanno davanti, ma dell’idea che si fanno di quella persona”. E i social, per loro natura, alimentano proprio questa idealizzazione. Non mostrano quasi mai il reale.

Il Pew Research Center, in un report del 2023, segnala che il 33% dei giovani adulti tra i 18 e i 29 anni ha vissuto una relazione affettiva nata e sviluppata esclusivamente online. Ma solo una piccola parte di questi legami ha resistito al passaggio nel mondo fisico. La maggior parte si è dissolta alla prima prova di realtà, rivelandosi per quello che era: un legame apparente, sorretto da pochi segnali mal interpretati.

Siamo più fragili? Forse sì

Tutto questo non accade per caso. L’illusione affettiva ha terreno fertile in una società dove la solitudine cresce, e dove i rapporti autentici richiedono tempo, presenza, impegno — tre cose che i social non solo non favoriscono, ma spesso disincentivano.

Il World Happiness Report 2024, sulla felicità delle persone nelle diverse fasi della vita, segnala un aumento della percezione di isolamento, soprattutto nei Paesi economicamente avanzati. I più giovani sono i più esposti: più connessi di tutti, ma anche più fragili. I social, in questo contesto, diventano una stampella affettiva: offrono una compagnia senza intimità.

Il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han sostiene che “preferiamo mille micro-interazioni a un confronto autentico, perché il primo ci conforta, il secondo ci mette a nudo”. In questa logica, l’emoticon è perfetta: dice tutto e niente, avvicina senza coinvolgere davvero.

Il rischio di vivere in una bolla emotiva

Emoji, like, cuoricini, reaction. Tutto veloce, tutto facile. Ma anche tutto interpretabile. E quindi, spesso, fraintendibile.

Si crea così una realtà parallela, fatta di segnali digitali che alimentano illusioni emotive. Una carezza digitale non è una carezza vera. Un cuoricino non è un impegno. Un messaggio letto non è presenza. Ma nel gioco delle proiezioni tutto questo può sembrare sufficiente. E a volte lo è – fino a che non ci si sveglia da quella bolla.

Imparare a distinguere il coinvolgimento reale dalla risposta automatica, il sentimento dalla reazione simbolica, diventa allora un esercizio necessario, ma per molti piuttosto complicato.

Non demonizziamo i social, in qualche modo anche loro sono funzionali a qualcosa o a qualcuno, ma usiamoli con consapevolezza. Perché tra il bisogno e l’illusione, spesso, c’è solo una faccina gialla di distanza.

 

 

Immagine creata con AI

Nicola Olivieri

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