La morte e la giustizia
di Michele Bartolo-
Dopo decenni si riaprono casi giudiziari e si continua ad indagare su fatti ed episodi di cronaca nera del passato.
Non dimentichiamoci che siamo il Paese di Ustica, del sequestro Moro e, oggi, potremmo dire anche dei casi di Denis Bergamini, Meredith Kercher e Alberto Stasi. Il fatto che vengano effettuate indagini e celebrati processi che poi vengono sistematicamente riviste o riaggiornati, a seguito di nuove prove o di fatti sopravvenuti, ormai non è più l’eccezione, ma è diventata la regola.
Certo tutto questo non aiuta la Giustizia, non fa trionfare la verità, non garantisce la certezza del diritto. Sicuramente il cittadino è sfiduciato se tutto può essere messo in discussione ed è facile comprendere che una Giustizia, anche se giusta, mi si perdonerà il gioco di parole, non può mai essere considerata tale quando arriva a distanza siderale dal fatto delittuoso.
Qualche giorno fa, quasi mezzo secolo dopo, si è aperto in Corte di Assise a Como il processo sul sequestro e l’omicidio di Cristina Mazzotti, la diciottenne, figlia di un facoltoso imprenditore, rapita il primo luglio 1975 mentre rientrava a casa da una festa con amici, morta durante la detenzione e il cui corpo fu abbandonato in una discarica, dove fu trovato il primo settembre di quell’anno.
Cristina Mazzotti fu tenuta prigioniera in una buca scavata nel terreno, letteralmente sepolta viva, tenuta segregata e costretta a stare in posizione distesa in una fossa lunga due metri e mezzo e larga un metro e 65, profonda un metro e mezzo e con un tubicino di plastica usato come impianto di aerazione.
Le vennero somministrate dosi massicce di valium per sedarla; periodicamente i sequestratori la prelevavano di peso e la trasportavano fuori dalla buca al fine di mostrarla per chiedere il riscatto. La diciottenne resistette 25 giorni. Tragico destino: lo stesso giorno in cui la figlia morì, il padre pagò il riscatto di un miliardo e 50 milioni dell’epoca. Fu il primo sequestro di una donna e furono condannati in 13. Venne infatti individuato il gruppo dei fiancheggiatori: carcerieri, centralinisti e i riciclatori del denaro del sequestro. Ma i responsabili più importanti, gli uomini che l’avevano rapita, gli esecutori materiali, e i mandanti, affiliati alla ‘ndrangheta, rimasero impuniti.
La prima svolta è stata nel 2007, quando è stata identificata in banca dati l’impronta di Demetrio Latella, 70 anni, bandito reggino, trovata sul vetro della Mini Minor dove viaggiava la giovane con due suoi amici. La richiesta di riaprire il caso, poi, avvenne con un esposto dell’avvocato Fabio Repici, che assisteva i familiari del giudice Bruno Caccia, ucciso da un agguato di ‘ndrangheta a Torino nel 1983, e dove risultò coinvolto sempre lo stesso Latella.
L’avvocato dei Caccia intuì la responsabilità del bandito reggino anche nel caso Mazzotti e convinse i pm Alberto Nobili e Stefano Civardi a riavviare le indagini, affidandole alla squadra Mobile. Per arrivare alla riapertura del processo occorrerà però attendere la sentenza della Cassazione che, nel 2015, ha qualificato imprescrittibile il reato di omicidio volontario, giacché l’accusa di sequestro era finita in prescrizione.
Oggi va alla sbarra con l’accusa di omicidio come conseguenza di sequestro di persona l’intero gruppo di anziani boss calabresi: Giuseppe Morabito, il boss quasi ottantenne della ‘ndrangheta del Varesotto, Giuseppe Calabrò detto “U’ Dutturicchio”, 70 anni, Antonio Talia, 73 anni, precedenti per armi e droga, e lo stesso Demetrio Latella, 70 anni, reo confesso del sequestro.
Sicuramente nulla può eccepirsi sulla imprescrittibilità del reato di omicidio, peraltro così efferato, ma è altrettanto vero che muore due volte chi ottiene Giustizia quarant’anni dopo la commissione del fatto delittuoso. Nel caso di Cristina Mazzotti, la Morte e la Giustizia hanno avuto due velocità: Cristina è stata strappata alla vita nel fiore degli anni e nel giro di pochi giorni; i suoi assassini, invece, hanno vissuto gran parte della loro vita godendo della totale impunità, poiché la Giustizia, per loro, è arrivata con il passo spedito di una tartaruga. Anzi, sta ancora in viaggio.
