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Anatomia di un suicidio politico annunciato

di Giuseppe Moesch*

In coerenza con i tempi, il candidato Biden ha annunciato sui social la decisione di ritirarsi dalla competizione elettorale per la carica di Presidente degli USA, ma l’ha fatto alla sua maniera ovvero designando chi dovrà subentrare al suo posto come candidato, ovvero la sua Vice, Kamala Harris.

Potrebbe apparire bizzarro che un aspirante Presidente possa voler imporre la figura del suo successore in un Paese considerato tempio della democrazia, ma i legami economico finanziari vincolano fortemente i comportamenti politici di quel Paese.

Sono da sempre convinto che non si possa analizzare una realtà come quella degli USA, che si estende su una superficie di quasi dieci milioni di chilometri quadrati ed una popolazione di oltre 340 milioni di abitanti, senza considerare che, essendo stata formata da gente in massima parte immigrata, fenomeno che ancora oggi continua, ha portato al formarsi di situazioni di non omogeneità e di frizioni anche molto violente.

Fenomeni di razzismo e di affermazione di superiorità di gruppi sono profondamente insiti nella società anche se in apparenza apparirebbe esistere una omogeneità di facciata.
Negli Stati Uniti sono riconosciute sei categorie etniche: americani bianchi, afroamericani, nativi americani, americani asiatici, nativi hawaiiani, americani di due o più etnie.
Dall’ultimo censimento, alla richiesta di indicare la propria provenienza razziale, solo il 7,2% si è definito di origine americana, non rivendicando altra matrice; la componente più significativa è quella tedesca con il 14,7%, africana con il 12,3%, messicana con il 10,9%, irlandese con il 10,6%, gli inglesi con il 7,8%, italiani con il 5,5%. Gli amerindi ovvero nativi americani raccolti in oltre 500 tribù, sono il 2,9%, polacchi e francesi presentano valori intorno al 2,8% mentre gli altri gruppi sono al di sotto del 2%.

La popolazione è molto religiosa; più del quarantadue per cento pratica il protestantesimo mentre più del ventuno per cento si dice cattolico. Oltre il 30% si dice non aderente a nessuna confessione o ateo o agnostico, e circa l’1% si definisce aderente all’Ebraismo e la stessa percentuale vale per l’Islam, mentre i Mormoni sono circa il 2%. La grande sensibilità religiosa si manifesta in una pluralità di sette all’interno dei gruppi principali con il fenomeno, sempre crescente, dei predicatori che utilizzano anche i nuovi mezzi si comunicazione e che hanno molta presa su larghi strati della popolazione.

Questa lunga premessa è necessaria per tentare di comprendere cosa succede nella politica nord americana, in quello che, come si è detto, è quasi un continente ma che viene considerato come un soggetto omogeneo dalla maggior parte dei commentatori politici e dai giornalisti in generale. Non è possibile parlare dell’Europa ritenendo di poter ignorare le profonde differenze culturali tra la Svezia o la Finlandia e l’Italia o la Grecia, così come appare superficiale omogeneizzare i comportamenti degli abitanti di Chicago, New York o Los Angeles o San Francisco e le città dell’Ohio o del Colorado o della Rust Belt, nota in passato come la Steel Belt, nel Northeastern, Midwestern del Paese comprendente gli stati del Western New York, Pennsylvania, Ohio, West Virginia, Indiana, Illinois, la Bassa Penisola del Michigan, il sud est del Wisconsin, e piccole parti del Kentucky, New Jersey e l’area metropolitana di Saint Louis in Missouri. Stiamo parlando di città come Allentown, Buffalo, Chicago, Cincinnati, Cleveland, Detroit, Gary, Milwaukee, Philadelphia, Pittsburgh, Rochester, Toledo, Trenton, e Youngstown che hanno conosciuto il dramma del crollo del settore metalmeccanico, con al primo posto il settore automobilistico, e la conseguente crisi occupazionale.

Ma allora chi è l’americano medio che dovrà eleggere il nuovo Presidente a novembre? Cosa si aspetta dalla politica nazionale? Quali sono i problemi rilevanti, e principalmente cosa offre la politica alle domande che pone la gente?

Il mondo americano è ancora saldamento legato agli uomini della frontiera delle origini: i Padri Pellegrini del Mayflower che il 16 settembre 1620 sbarcarono a Plymouth e che sopravvissero durante il primo anno nutrendosi ed allevando i tacchini selvatici che ancora oggi sono il simbolo della principale festa identitaria nazionale, difendendosi da soli con le armi. Si comprende perché oggi è così difficile affrontare il tema della mostruosa diffusione ed uso delle armi, e del bisogno di sicurezza che è una delle richieste della popolazione.
La politica non riesce ad affrontare il problema e nessuno dei due grandi Partiti sembra volerlo fare seriamente, anzi i Repubblicani affermano e confermano il diritto ad essere armati; si attribuisce così agli immigrati o alle minoranze etniche non bianche, la responsabilità del clima violento, ed agli immigrati clandestini la responsabilità della crisi economica.

Alla politica d’inclusione portata avanti dai democratici si contrappone la proposta repubblicana della colossale espulsione dei clandestini, parliamo di oltre dieci milioni, che viene vista come la soluzione al problema che i democratici non hanno saputo affrontare.

Altro tema dolente è quello della sanità, che non ha trovato risposte nei governi a guida democratica, così come l’istruzione, anche essa intesa come formazione utile per la produzione di ricchezza essendo la cultura appannaggio di élites di cui le minoranze non fanno parte; ci si potrà arricchire ma non sarà facile fare il salto e questo diventa elemento di ulteriore discriminazione sociale.

La distribuzione territoriale della popolazione che, accanto alle metropoli e le altre grandi città, vede una notevole quota di popolazione in aree rurale o in città medio piccole, poco sensibile alla politica estera o ai temi quali economia green e identità di genere, che rappresentano solo una sottrazione di risorse rispetto alla quotidianità dei problemi, per non parlare dell’idea che i propri figli possano morire per guerre che sono considerate non di proprio interesse.

Due figure irrompono sulla scena politica e sono i due vice Vance ed Harris che di fatto sono due finzioni politiche.
Tutti questi elementi fanno capire perché unitamente alle condizioni economiche hanno colpito ferocemente i gruppi bianchi diventano campo di raccolta di voti da parte di Trump, e la scelta del vice, il senatore dell’Ohio James David Vance appare coerente risposta alla inazione dei democratici.

La debolezza della candidatura di Biden ha consentito a Trump di essere certo della vittoria che sarà rafforzata dalla presenza di un vice altrettanto tosto.
L’uomo che oggi va a formare il ticket con il tycoon viene presentato attraverso il suo curriculum, come la risposta vincente ai desideri di riscatto sociali dei bianchi impoveriti. Figlio di Donald Bowman, che abbandonò moglie e figlio neonato, ha optato per il cognome materno rifiutando perfino il nome Donald, cambiato in David, per cancellare qualsiasi relazione con il padre, visse la sua infanzia e l’adolescenza in Ohio con i parenti provenienti dal Kentucky, vivendo con la madre alcolista nel torbido mondo white trash, fino a quando per sfuggire a quella realtà si arruola nei marines partecipando ad alcune missioni in Iraq. Ritornato in Ohio studia Scienze politiche in quell’Università per poi trasferirsi a Yale, una delle più prestigiose università americane facente parte del circuito dell’Ivy League, laureandosi in giurisprudenza, iniziando una carriera che lo porta a diventare molto ricco nella Silicon Valley.

Inizialmente molto critico nei confronti di Trump, pur apprezzando le proposte MAGA (Make America Great Again), le critica aspramente, tanto da diventare un epigono della sinistra democratica, per poi diventare con una disinvolta piroetta uno dei maggiori supporti del futuro presidente, il quale lo appoggia nella sua corsa per diventare senatore in Ohio. A completamento della sua trasformazione sposa una donna la cui famiglia proviene dal sud est asiatico e in occasione del matrimonio con rito misto, si converte al cattolicesimo, e con la quale ha tre figli mostrando l’immagine della perfetta famiglia americana.
Ecco il senso della scelta di Vance, a cui non ultimo si aggiunge la capacità di contrapporsi ai grandi temi sociali, tra i quali ovviamente quelli che hanno fatto breccia nei cuori teneri dei giovani ecologisti alla Greta Thunberg, o i difensori delle minoranze LGBT+, che erano stati il cavallo di battaglia di Ron De Santis, che cavalcando quei temi aveva cercato di contrapporsi a Trump.

In nome del cosiddetto Wokismo, ovvero l’idea di non abbassare mai l’attenzione sul tema delle ingiustizie sociali e razziali, e di impegnarsi in maniera attiva per combatterle, De Santis aveva tentato di trovare il modo per sottrarre voti ai democratici principali esponenti di quei valori.
Come i nostrani Radical Chic, figli delle ZTL, i democratici, hanno imposto slogan che non fanno breccia in un elettorato fortemente identitario quale quello repubblicano per il quale il concetto maschio femmina è ben definito e che non è interessato ai problemi di lesbiche, gay, transgender e via enumerando, specialmente quando si trovano di fronte a problemi di sopravvivenza.

Vance ha affrontato di petto la sfida rivendicando il diritto e la libertà di dire quello che gli passa per la mente, ed alla maniera di Vannacci ha semplicemente rigettato il Wokismo, trovando facile consenso.

L’immagine che viene offerta di Vance non corrisponde alla realtà; è una finzione mediatica, non è l’uomo che difende l’America bianca impoverita ma è l’uomo dell’apparato ricco e conservatore che propone risposte alla pancia degli elettori, ricette semplicistiche alla mancata politica democratica su temi molto sentiti.

L’espulsione degli immigrati clandestini che rubano il lavoro, le guerre finanziate a costo delle tasse dei cittadini, l’idea di disimpegno dalle aree di guerra, i temi contro le minoranze sessuali, sono altrettanti slogan che hanno facile presa nelle aree rurali e nelle aree di crisi economica.

Vance è la controfigura di Trump e viene presentato come il giovane erede del vecchio ex Presidente, che garantirà la successione ed il successo futuro del partito.

Fino a pochi giorni orsono, la vittoria dei repubblicani sembrava certa perché ad essi veniva opposto un ticket considerato perdente sia per gli scarsi risultati che si attribuivano all’esecutivo nel corso del mandato, sia per la debolezza fisica del presidente, sia per lo scarso valore che si attribuiva alla vice Kamala Harris.

Se si aggiunge a questi elementi la debolezza del Partito Democratico, incapace di opporsi ai capricci di un vecchio Presidente che voleva a tutti i costi la riconferma del proprio mandato, pur in una condizione di oggettiva difficoltà non solo fisica, ma soprattutto politica, si comprende allora come fosse fortemente pregiudicata la campagna elettorale. I democratici si erano adattati all’idea di perdere le lezioni presidenziali, ma dopo lo scontro diretto tra i due candidati Biden e Trump, si sono resi conto che avrebbero perso anche il controllo del Congresso, cosa che avrebbe rappresentato una vera catastrofe per il loro intero sistema di potere.

Il reale problema di fronte al quale si sono trovati gli uomini del partito non era quella della sconfessione del candidato e della sua sostituzione in corsa, quanto le conseguenze sui finanziamenti dei privati per la campagna elettorale che negli USA sono molto complesse e legati alla coppia designata e non trasferibili ad altri.

La campagna elettorale negli USA diventa sempre più costosa: dall’organizzazione degli eventi ai costi per gli spostamenti, alle campagne televisive, e a tutti gli altri oneri organizzativi, l’ordine di grandezza si calcola in milioni di dollari, provenienti da finanziamenti privati regolati da un sistema, i Pac (Political Action Committees), comitati di gruppi industriali, sindacati o aziende che raccolgono fondi per appoggiare un politico o un partito in maniera privata.

Sono gruppi capaci di influenzare l’opinione pubblica e per tale motivo sono sottoposti a controlli rigidi da parte del governo federale. Per ovviare al fatto che normalmente i singoli versamenti non possono superare i cinquemila dollari per finanziatore, sono stati introdotti i super Pac, con finanziamenti illimitati per promuovere pubblicità o quant’altro; questi finanziamenti non sono gestiti dai candidati, tuttavia sono ad essi strettamente legati e non trasferibili ad altri.

Se i Democratici avessero deciso di cambiare cavallo in corsa, gli oltre cinquanta milioni già raccolti sarebbero andati persi è già alcuni finanziatori avevano deciso di ritirarsi.
Con interpretazione discutibile si ritiene che, se la vice indicata nel ticket avesse corso per la presidenza avrebbe potuto esser considerata come legittima destinataria di quei fondi.
Quindi due grossi problemi come far rinunciare Biden e accettare di far correre al suo posto la Harris, per non trovarsi nell’impossibilità di avere finanziamenti.
È chiaro che il dramma era dovuto al fatto che il partito Democratico, accozzaglia di minoranze che somiglia molto al “Campo Largo”, proposto dalla sinistra italiana, non era in grado di proporre soluzioni alternative al candidato inerziale.

E non è un caso che la scelta della Harris, fatta quattro anni orsono, non era altro che un tentativo di coprirsi a sinistra con una candidata donna, asio americana che anche se incarnava il sogno americano, che veniva presentata come vittima di una società iniqua.
La rinuncia di Biden ha semplificato il gioco, ed ha permesso di rilanciare il partito attraverso l’adesione di attori e cantanti, anchor man e influencer, che erano terrorizzati dalla potenziale sconfitta che avrebbe potuto avere conseguenze dirette sul loro futuro.

Da qui il coro di consensi alla Harris che sarà confermato dalla convention democratica e che ha raccolto il consenso della maggioranza dei grandi elettori che avevano aderito al ticket riproposto da Biden, che hanno già assicurato il loro voto, così come i leader di rilievo del partito, anche se manca per ora solo Obama, e che ha prodotto la raccolta di ulteriori finanziamenti per oltre cento milioni di dollari in due giorni. La scelta sembra stata gradita dall’elettorato, tanto che l’ultimo sondaggio della Reuter la valuta con un vantaggio di quattro punti su Trump, smentito subito dopo da altri che danno indicazioni di segno opposto.

Ma chi è Kamala Harris? La candidata è figlia di un economista di origine giamaicano e da madre indiana appartenente alla casta dei Bramini, ricercatrice universitaria.
Dopo la laurea in giurisprudenza lavora come vice procuratrice distrettuale della Contea di Alameda fino ad essere eletta nel 2003 procuratrice distrettuale di San Francisco. Nel 2010 viene eletta procuratrice generale della California e nel 2016 senatrice. Nel 2020 viene scelta come vice di Biden per meriti legati agli equilibri interni come nera, donna e dalle posizioni radicaleggianti quindi garantendo a sinistra il moderato Candidato Presidente.
Le sono affidati incarichi delicati in particolare quello sull’immigrazione rispetto al quale non consegue risultati significativi e viene accusata di preferire restare negli uffici piuttosto che muoversi ad affrontare problemi. Chiacchierata in passato per una relazione di lei non ancora trentenne con il sessantenne Willie Brown, il politico nero più importante della sua generazione, due volte sindaco di San Francisco e per feste sessuali, accuse a cui punterebbe Trump che nella puritana America potrebbero avere un qualche peso, se eletta, sarebbe la prima donna presidente della nazione e il secondo presidente nero.

Sia Vance che la Harris sono quindi una finzione, figli di una democrazia malata, sempre espressione di una ristretta élite ricca che gioca sulla pelle dei marginali di ogni tipo per tentare di mantenere o di riconquistare il potere.

Il racconto che ci viene proposto dai politici e dai media italiani è il tentativo goffo di leggere quel mondo con occhi occidentali e gli italiani in modo ancora più provinciale, come proiezione della nostra politica interna.
La complessità del fenomeno non sempre appare con tutta la sua rilevanza, ed in particolare le conseguenze dell’una o dell’altra scelta avrebbero effetti assai rilevanti per l’occidente.

Trump ha già fatto sapere che il problema dell’Ucraina è una faccenda europea e che la Russia faccia ciò che vuole, visto e considerato che gli stati europei non contribuiscono a sufficienza per il mantenimento della NATO.
Per i Democratici il rapporto con la Cina è prioritario e quelli con la Russia rappresentano la continuazione di un conflitto che risale al secondo dopoguerra, con il deterrente delle armi atomiche che aleggia sullo sfondo.
L’Europa brilla per la propria assenza politica sulla scena internazionale essendo incapace di superare gli interessi di parte ed incapace di affermare una politica comune, facendone fede le scelte faziose della recente elezione della Commissione e le sterili ripicche sul piano delle nomine.

Si comprende allora che la situazione collegata alle scelte che faranno gli americani a novembre avranno comunque enormi conseguenze per tutti ma, come si diceva un tempo, la situazione è grave ma non è seria.

 

* già Professore Ordinario presso l’Università degli Studi di Salerno

 

 

Official portrait of Vice President Kamala Harris. Lawrence Jackson .Public domain

Giuseppe Moesch Giuseppe Moesch

Giuseppe Moesch

Napoletano, già professore ordinario di Economia Applicata, prestato alla politica ed alle istituzioni nazionali ed internazionali, per le quali ha svolto incarichi e missioni viaggiando in quasi cinquanta Paesi attraversando l’umanità che li popola. Oggi propone le sue riflessioni scrivendo quando non riesce a capire quelle degli altri.

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