Il mare è lontano da Labranda
di Giuseppe Moesh*
Amo la libertà e forse per questo che amo il mare. Il mare da cavalcare, da esplorare, da pescare, da farsi cullare, il mare da pennica in barca, da giochi di luce, da refole di vento che increspano solo un minuscolo pezzo della superficie, e dalle onde lunghe che ti smuovono da sotto la barca e non le capisci, dalle onde del maltempo che vedi crescere quando il movimento sotto e sopra si unisce, le increspature sono ravvicinate, piccole e disordinate e ti sembrano ingovernabili, con gli spruzzi che ti frustano freddi anche se fuori sei prossimo ai quaranta gradi, le onde grandi formate e potenti che si alzano davanti a te o ti inseguono e sembra che vogliano inghiottirti, il mare che muove le barche ormeggiate e crea suoni che riconosci e che cerchi di attribuire all’una o all’altra, il mare che muove i piccoli ciottoli o la sabbia con un fruscio carezzevole e suadente, il mare che accoglie una donna con un costume bianco e la restituisce come Venere sotto un velo trasparente: amo il mare.
Non mi piace restare su una sdraio o su un lettino ad arrostirmi al sole in mezzo al frastuono di gente costretta a divertirsi ad ogni costo, lo tollero a mala pena in zone isolate o a fine stagione quando il silenzio riesce a prevalere e quindi recuperi il rapporto con la natura.
La Turchia dei miei primi viaggi era ancora in grado di offrire queste possibilità nella serie infinita di cale e calette, di penisole che si sviluppavano in altre più piccole penisole ed in piccole baie vuote, a parte le località dove il turismo di massa stava già imponendosi alla grande.
Anche se non avevo una barca, era accettabile fermarsi, tra un’escursione e l’altra ai siti archeologici, in una di quelle insenature ed immergersi in un mare meraviglioso e trasparente, magari nuotando in mezzo a rovine di vecchi edifici sommersi, oppure immergersi appena sotto il pelo dell’acqua ed accorgersi che tutta la sabbia sotto era costellata da centinaia di pinne nobili, che nel mio mare di Napoli non si vedevano che raramente a grandi profondità per le rapine passate e per gli effetti della pesca a strascico intensiva.
Ho visitato penso tutti i siti archeologici, tra Troia ed Antalia indicati nelle guide ed anche quelli che ancora non erano assurte alla notorietà ed erano in fase di scavo.
Da Bodrum stavamo spostandoci verso Marmaris; sapevo dell’esistenza dell’antica città di Labranda e pensavo di visitarla.
Gli altri componenti del gruppo erano stanchi e preferivano restare in albergo al mare, ed io decisi di tornare leggermente indietro e risalire verso l’interno dove i resti della città che in passato aveva fornito acqua a Milas, erano ancora significativi e poco visitati.
Mi avviai e trovai la deviazione che indicava la direzione verso la montagna con la scritta quasi invisibile, a conferma della poca importanza che si attribuiva al sito.
Faceva molto caldo erano le due del pomeriggio; avevo percorso pochi metri che un uomo mi fece segno che voleva un passaggio.
Normalmente non amo imbarcare gente sconosciuta, e non so perché quella evidentemente stanca figura di contadino, mi fece mollare le difese e rallentai. Mi accenna un sorriso ed io dico:” Labranda”. Sorriso ancora più ampio e lui conferma: “Labranda”.
Aveva una quarantina d’anni, vestito con un paio di pantaloni di stoffa greve scuri, una camicia a scacchi sotto una giacca, una coppola ed una sacca che appariva pesante.
Provo ad intessere una discussione in inglese chiedendogli di dove fosse, e riesco ad ottenere in risposta solo il suo sguardo assente che mi diceva che non aveva capito, Riprovo nelle altre lingue disponibili nel mio vocabolario ma ottengo le stesse incomprensibili risposte in turco e poi: “Labranda” ed io sorrido e dico “Labranda”.
A quel punto ho capito che dovevo utilizzare il mio asso nella manica ed ho cominciato a parlare la lingua internazionale come si usa a Napoli e gesticolando ho chiesto indicandolo, ed indicando dopo fuori: “Sei di qui?”
Parole turche e io intuisco la parola Ismir. Lo indico di nuovo e ripeto dicendo segnando con ii dito ISMIR, e lui annuisce e ripete Ismir. È iniziata la nostra conversazione. Indico con la mano la strada davanti a me e dico “Labranda?” e lui: ”Labranda! Labranda!”
Cerco di continuare facendo il segno di zappare e lui risponde no col capo, però si guarda intorno come a cercare qualcosa. Passa qualche minuto mentre la strada continua a salire e, ad un tratto, mi fa segno e dice qualcosa sempre in turco. Non capisco, poi ripete il suono ed il gesto e mostra un oggetto stavolta più vicino a noi. Prima non capisco, poi mi rendo conto che si tratta di un’arnia. Faccio segno di qualcosa che vola, faccio un sibilo tra i denti ed il gesto di mangiare qualcosa con un cucchiaino, ed il segno di buono. Contento risponde si e ripete i miei gesti e ride.
La cosa continuò in questo modo per una decina di minuti e cominciai a capire una cosa che, seppi in seguito, si faceva anche da noi, ovvero la transumanza delle api. Da Smirne in primavera si spostavano in questa zona che è ricca di foreste, facendo aumentare la raccolta del nettare che qui è più abbondante e quindi la produzione di miele, ritornando a casa a fine estate con le nuove api e tutto un carco di miele da vendere.
Cercai di sapere quante arnie ci fossero e lui mi fece più volte il segno delle due mani pe farmi intendere che erano molte; intanto continuavamo a salire sempre continuando a chiedere “Labranda?” e lui:” Labranda!” e rideva.
Sapevo che la distanza dal bivio al sito era meno di una ventina di chilometri e mi sembrava di averli percorsi e la zona, ormai, era penetrata a fondo nella foresta e in giro non c’era anima viva e nessun segno di case o altro. La mia domanda “Labranda?” e lui: Labranda! Diventava un po’ ansiosa ma lui ridendo ripeteva “Labranda! Labranda!”
Dopo circa cinque minuti mi indica una piccola radura e mi chiede di fermare l’auto, apre lo sportello e mi fa capire che vuole che scenda anch’io; faccio buon viso a cattivo gioco e comincio a tentare di ripetere il ritornello e lui annuisce e ripete i suoi versi. Mi dice, o meglio con il linguaggio dei gesti mi dice di lasciare tutto, ma decido di prendere almeno una macchina fotografica. Non capisco cosa succede: non ho paura perché la mia prima impressione mi sembrava confermata, ma non capivo perché mi avesse fatto scendere quando l’ultimo cartello mi indicava gli scavi a tre quattrocento metri.
Chiudo l’auto e mi dice di seguirlo, si dirige verso il lato opposto della strada ed imbocca un viottolo che si inerpica tra gli alberi. Pochi metri e la strada non si vede più; andiamo avanti per tre o quattro minuti ed uno strano rumore sordo e continuo comincia a sentirsi e si fa sempre più forte come un motore elettrico di notevole dimensione. Sono preoccupato e cerco di dissimularlo. Sbuchiamo in uno spazio assai ampio senza più alberi circondato da un costone di roccia a formare un anfiteatro naturale, con delle caverne su tre piani, ed al centro l’origine di quel rumore, ovvero centinaia di arnie dalle quali l’andirivieni degli insetti provocava un ronzio fortissimo dovuto al volo contemporaneo di migliaia di api.
Un’immagine fiabesca ed irreale; alcuni uomini erano al lavoro con l’attrezzatura completa di cappello con retina, guanti e affumicatore e quant’altro, mentre altri si aggiravano per lo spiazzo.
Mi fece vedere quello spettacolo e poi prese a salire attraverso una scalinata praticata sul fianco della montagna fino alla sommità dell’anfiteatro dal quale si dominava tutta la scena. Nelle caverne intermedie erano stipati i contenitori con il miele già raccolto. In cima c’era un vecchio che mi guardava incuriosito, il mio compagno gli parlò, mi indicò, e fece un gesto come per descrivere un volante. Il vecchio mi si avvicinò, mi prese le mani tra le sue mani ed abbassò la testa in segno di ringraziamento.
Nel frattempo alcuni giovani si dettero da fare intorno a noi, stesero alcuni kilim in terra e mi fecero segno di sedere così come fece il vecchio; intanto arrivavano uno ad uno alti uomini che mi venivano presentati come fratelli sempre con il linguaggio dei gesti, ed alla fine arrivarono una pagnotta fragrante, portata dal mio compagno di viaggio, due otri di pelle di pecora, uno pieno di acqua nella quale era conservato del formaggio appena fatto, ed un altro pieno di acqua gelata attinta dal fiumiciattolo che si sentiva scorrere vicino.
Un altro ragazzo consegnò al mio compagno un telaio carico di miele con molte api ancora al lavoro sulla superficie e quello, con un raschietto, fece cadere il prezioso prodotto in un piatto mentre in un altro avevano adagiato un pezzo di formaggio tratto dall’otre, fatto a pezzetti. Mi offrirono il tutto. Il vecchio prese un pezzo di pane, me lo mostrò per farmi capire come fare, lo intinse nel miele prese un pezzo di formaggio e portò il tutto alla bocca: semplicemente squisito.
Quella gente mi stava ringraziando per il gesto di solidarietà che aveva fatto risparmiare all’uomo che avevo preso a bordo le cinque ore di marcia con il carico di pane e altre cose che aveva acquistato a valle. Per questo aveva voluto farmi ringraziare da tutta la famiglia.
Non si può descrivere la bontà di quella merenda, ed il piacere di quella compagnia della quale avevo avuto un po’ paura; quando decisi di andar via erano quasi le sei ed ovviamente il sito era ormai chiuso. Grandi saluti e quindi mi mostrarono una strada, un viottolo un pochino ripido ma mi dissero, cioè mi fecero capire, che così avrei fatto prima.
In effetti a balzelloni scesi rapidamente nei pressi della macchina, ebbi modo di dare una occhiata al cancello chiuso, mi diressi all’auto e mi dissi che nessun sito archeologico avrebbe mai potuto ripagarmi di quella esperienza.
Oggi, ripensando a quei giorni di quasi trent’anni fa, nell’infuriare di una guerra dovuta all’ideologia ed alla sete di potere, senza alcun rispetto per la vita umana, non posso fare a meno di constatare come uomini di razza e cultura diversa possano riconoscersi come simili anche senza una lingua veicolare se non quella primitiva dei segni, come per gli ominidi di qualche milione di anni fa.
Oggi, ripensando a quei giorni di quasi trent’anni fa, una richiesta di solidarietà di un uomo stanco, ebbe da parte mia una risposta, forse timorosa, ma certamente consapevole del fatto che avrei così ridotto il peso della fatica di vivere di quel mio simile.
Oggi, ripensando a quei giorni di quasi trent’anni fa, capisco come l’intromissione di componenti di fanatismo religioso, possano modificare le componenti istintive di uomini che sono stati educati all’odio in nome di un Dio, come tutti gli altri Dio di ogni religione, così ottuso da richiedere la sofferenza come progetto di una vita futura migliore, sacrificando quella unica vita che abbiamo da vivere.
Oggi, ripensando a quei giorni di quasi trent’anni fa, mi chiedo come sia possibile nel mondo trovare giovani così privati della libertà di pensare autonomamente, che seguono pifferai ideologizzati che perseguono finalità pseudo politiche per ottenere il potere.
Oggi, ripensando a quei giorni di quasi trent’anni fa, mi chiedo dove e quando siamo stati capaci di riaccendere l’odio che dopo la Seconda Guerra Mondiale sembrava essere stato almeno ridotto dal desiderio di pace.
Oggi, ripensando a quei giorni di quasi trent’anni fa, mi accorgo che neanche il mare è più in grado di darmi risposte.
