Giulia e il bravo ragazzo a cui hanno dato tutto

di Giuseppe Moesch*

Non amo commentare a caldo le notizie di cronaca, per evitare di essere sopraffatto dalle reazioni emotive mie e degli altri e preferisco lasciare sedimentare gli eventi ed una volta che il polverone si sia depositato cercare di capire il perché si siano verificati ed i riflessi che essi hanno sulla società.

Tuttavia la notizia che ha scosso il Paese in questi ultimi giorni, frettolosamente inserita nel filone dei femminicidi, nasconde una molteplicità di elementi e di sollecitazioni che mi spingono ad affrontare l’omicidio di Giulia Cecchettin da parte di Filippo Turetta, con maggiore immediatezza.

Siamo stancamente abituati a discutere su efferati comportamenti di soggetti inseriti in contesti di disagio sociale, rispetto ai quali le vittime, donne più o meno giovani, vengono uccise in nome di una antica ideologia legata alla primazia maschile di tipo possessivo e in alcuni casi per la stanchezza di un rapporto che si vorrebbe sostituire con uno più fresco.

Il caso in questione invece si svolge in un ambiente apparentemente non turbato da problemi economici o collegati al malaffare, o alla droga, o con famiglie ignoranti o disadattate, nel quale sono stati coinvolti due giovani, lei figlia di un noto professionista informatico vivente in una villetta unifamiliare, studentessa prossima al conseguimento di una laurea triennale, e lui figlio di una famiglia di ristoratori con decenti condizioni economiche, a cui a detta del padre era stato dato tutto, anch’egli prossimo al completamento del corso di studi, gli mancavano tre esami.

Devo dire che la cosa che mi creato maggiori problemi è stato l’atteggiamento del padre del presunto omicida. Prima ancora che il giovane fosse catturato il ristoratore aveva espresso la sua angoscia con una frase che probabilmente certifica una sconfitta esistenziale quando ha detto che avrebbe preferito sapere che la storia fosse finita in altro modo.

La consapevolezza dell’abisso in cui era precipitato e di cui era partecipe, lontano anni luce dalla sua idea di lavoratore che sulla scia del sogno di una vita ricca di soddisfazioni economiche e sociali con il figlio destinato ad un futuro da ingegnere biomedico, si era trovato di fronte ad una realtà che non capiva.

Cosa non aveva funzionato, perché suo figlio aveva ucciso quella che diceva essere il suo grande amore, perché non aveva portato a termine il progetto preparato per lui, perché non mancandogli niente aveva tradito le aspettative per le quali si era sacrificato per una vitta intera insieme alla moglie lavorando in un ristorante fino a tarda notte?

Credo che sia questo il vero problema di fronte al quale tutti gli psicologi, gli opinionisti, i soloni della TV ed i politici si trovano oggi.

Sono fermamente convinto che in questa grande tragedia ci siano tre vittime.

Ovviamente la più visibile è Giulia, vittima prima ancora che delle coltellate del suo assassino, della incapacità di saper vivere in un mondo che forse non l’ha preparata adeguatamente ad affrontare il male che la circondava; aveva ventidue anni ma la sensazione che dava era quella di una adolescente, dolcissima, ma se si vuole impreparata, non ancora pronta ad affrontare la vita.

La seconda vittima è il bravo ragazzo Filippo, che ha davanti a sé la terrificante prospettiva di un ergastolo, che è forse peggio della morte fisica che ha inferto a Giulia, di cui il padre, dall’abisso nel quale è precipitato, ha compreso appieno la tragicità.

La terza vittima è la società tutta intera, di cui fanno ovviamente parte la cerchia più stretta dei familiari dei due personaggi principali, ma anche tutti gli altri che oggi si stracciano le vesti e che non sanno trovare spiegazioni e principalmente non vogliono trovarle, perché significherebbe mettere in discussione l’intero sistema di riferimento.

Non siamo davanti a due generazioni a confronto, ma al disfacimento di un mondo a cui ne sta seguendo un altro in fieri, che non ha ancora trovato le coordinate per il suo futuro.

Prima di completare la mia analisi mi si consenta di scavare nel mio passato.

Per quasi cinquant’anni ho avuto modo di essere a stretto contatto con giovani intorno ai ventuno o ventidue anni o poco più; mi sono passati davanti circa tre o forse quattro generazioni di studenti, in diverse città italiane ed alcune straniere.

Ho sempre visto il mio ruolo di professore, oltre che come ricercatore principalmente come educatore. Le nozioni possono essere trasmesse sicuramente meglio attraverso sussidi quali libri o altri media, ma la funzione svolta in aula con il contatto diretto con gli allievi è assolutamente insostituibile. La semplificazione telematica annulla quella funzione e se essa viene attivata fin dai primi anni di scuola lascia a se stessi i giovani che perdono la loro seconda guida.

Dico seconda perché la prima è la famiglia.

Ho insegnato materie specialistiche e pertanto ho avuto la fortuna di poter avere al massimo una cinquantina di studenti in aula che fisiologicamente diminuivano dopo un primo periodo per poi aumentare verso la fine del corso, per la convinzione che alcuni avevano di farmi ricordare il loro volto e sperare in un atteggiamento più benevolo agli esami, ma questa riduzione mi offriva la gradevole opportunità di intessere un dialogo con i presenti, che invitavo a partecipare attivamente alle discussioni che accendevo.

Alcuni di quei giovani chiedevano di svolgere la tesi di laurea nella mia materia, ed ovviamente il rapporto con gli stessi si intensificava. E dopo le discussioni tecniche si finiva sempre per parlare dei loro piccoli e grandi problemi.

Ancora oggi molti di quegli studenti mi scrivono per condividere i loro successi o anche semplicemente per un saluto che mi dona grande soddisfazione per aver saputo e potuto offrire un supporto al divenire della loro vita.

Ovviamente le diverse latitudini mi hanno presentato comportamenti diversi anche per studenti appartenenti a gruppi sociali simili ma in luoghi differenti; le storie familiari di studenti della facoltà di Ingegneria di Cagliari, dove alla fine degli anni settanta vi erano ancora le macerie della seconda guerra mondiale, come peraltro a Napoli, e quelli del Politecnico di Milano, degli anni della città da bere, o di quelli delle facoltà di Economia di Napoli, con le sacche di povertà, la criminalità ed il ed il retaggio di una grande civiltà, e di Salerno con la sua enorme provincia così difforme e variegata, come di Luanda o di Maputo sono state di volta in volta espressione di società in evoluzioni ma certamente condizionate dalle specifiche vicende locali.

Ma in tutte quelle diverse aree e condizioni, i giovani che mi si presentavano davanti erano fortemente motivati e perfino negli ultimi anni nonostante il dilagare dei social e degli influencer trascinatori di smarriti followers mi sono ritrovato nel sud una forte coesione familiare, e la partecipazione delle famiglie alla quotidianità dei loro figli, in alcuni casi fin troppo pressante.

In particolare le ragazze mi raccontavano della agitazione in famiglia per l’evento che si sarebbe consumato di lì a poco con la consapevolezza che non si trattava di un punto di arrivo ma di partenza, ma con il successo di tutta la famiglia.

Mi sono sentito raccontare dei riti per l’acquisto del vestito, della borsa e delle scarpe da indossare, riti che vedevano la partecipazione della famiglia e mi ha rattristato sapere dei messaggi di Giulia alla sorella per le scarpe in assenza della mamma che era morta da poco.

Ho visto molte ragazze piangere per il mancato ruolo che veniva loro riservato rispetto ai fratelli maschi, ed una in particolare mi è rimasta in mente: veniva accompagnata dal padre come scoprii per caso una volta, che aspettava davanti alla porta perché non lasciava la figlia sola. Dovetti una volta pregarlo di allontanarsi e solo allora in presenza di una mia collaboratrice, ebbi modo di ascoltare i pianti liberatori di quella giovane che oltre a studiare curava la contabilità dell’azienda di famiglia, senza spazi di libertà e senza riconoscimenti per il suo lavoro, mentre il fratello parassita, che era destinato ad ereditare l’azienda, viveva nell’ozio.

Molto è cambiato e molto deve ancora cambiare, tuttavia anche in quella famiglia non mancava una solida struttura familiare e la ragazza era consapevole che per il padre quel comportamento era frutto dell’affetto che nutriva per lei, sicuramente malsano, ma sicuramente motivato da affetto.

Molte delle trasformazioni sono dovute all’ampliarsi delle conoscenze per la diffusione permeante dei media.

Oggi nel mondo molta parte degli uomini si servono di strumenti elettronici, in poche parole computer, magari sotto forma di telefonini o smartphone, capaci di risolvere molti problemi di comunicazione ma principalmente di elaborare grandi masse di dati in tempi ridottissimi.

Sono relativamente pochi gli individui che conoscono il funzionamento di quegli oggetti, né hanno interesse a saperlo.

Se si decide di acquistare un computer si decide di farlo in base alle sue caratteristiche, in genere la potenza di elaborazione, la velocità, la memoria, ma in realtà pochi procedono all’acquisto in base alle proprie esigenze; avere una grande velocità di elaborazione ed una grande memoria o potenza di calcolo o se devo tentare di fare calcoli complessi avrò bisogno di un computer molto avanzato, ma se le mie necessità sono quelle della video scrittura o di una abbondante memoria per archiviare i miei ricordi o le mie foto, non sarà necessario acquistare un prodotto particolarmente sofisticato.

Oggi la corsa all’acquisto dell’ultimo modello di telefono è legato piuttosto che a soddisfare i nostri bisogni reali quanto a rincorrere l’ultimo modello per esibirlo tra i nostri simili e lo sanno bene i produttori che spingono all’acquisto anche attraverso la tecnica dell’obsolescenza programmata.

Tra le componenti essenziali di un computer vi sono i programmi. Senza un programma di video scrittura non saprei come scrivere un messaggio, ma senza un programma di messaggistica non potrei inoltrarlo ad altri, e senza un programma di elaborazione delle immagini non potrei trattare delle foto e così via.

Senza quelle applicazioni il computer è un oggetto praticamente inutile, addirittura dannoso perché se lo tengo acceso consuma inutilmente energia.

Un bambino è come un computer con un sistema operativo installato straordinariamente evoluto nel tempo, milioni di anni, che ha nei suoi organi immagazzinate le funzioni essenziali per il suo funzionamento.

Ha bisogno di energia e se la procura attraverso il cordone ombelicale dalla madre, ma quando viene staccato dalla sua fonte energetica, dovrà produrre in proprio quell’energia assumendo dall’esterno gli elementi, i nutrienti e l’ossigeno necessari, ed elaborarli attraverso processi fisico chimici, con procedure che sono inclusi nel suo sistema operativo e dallo stesso comandati, ovvero comandati da quel sistema operativo che è il cervello.

I suoi movimenti sono già previsti nella storia accumulata nel suo DNA, nei suoi geni, imparerà presto a stare in piedi e a muoversi, ma avrà bisogno dell’implementazione di una serie di programmi per attivare tutte le potenzialità disponibile ed inventarne delle nuove o migliorarne quelle ataviche, dovrà imparare coll’esperienza e coll’insegnamento da parte di chi avrà cura di lui.

L’esempio e la guida saranno necessari per far sì che le potenzialità possano manifestarsi e cominceranno le ninne nanne o i gesti di affetto a creare le condizioni per la sua affettività. I rapporti tra i genitori, l’ambiente in cui cresce, la capacità di interagire con i suoi simili, le regole della convivenza, il saluto, la condivisione, in buona sostanza tutte quelle componenti empatiche che faranno di lui un futuro uomo, tra le quali gli aneddoti, le storie di famiglia, l’ascoltare le fiabe a letto prima di dormire, tutte componenti offerte da quegli aedi che da sempre hanno formato la base della condizione umana.

Poi verranno, più o meno presto, dalla scuola cosiddetta materna fino ai percorsi di più alto livello e complessità, i percorsi formativi successivi alla famiglia, con l’inserimento di nuove app che gli permetteranno di interagire con la società, la scrittura, la lettura, il disegno e la musica.

Tutto questo nei primissimi anni di vita in cui il bambino assimila al massimo dai genitori che lo amano e glielo fanno capire, ma dovranno essere in grado di indicargli i limiti e gli spazi entro cui muoversi per non impedire agli altri di avere i propri, gli insegneranno il rispetto, a comportarsi in modo da essere in grado di stare all’interno della società in cui saranno inseriti, che possono essere anche diverse l’una dall’altra, ma che devono avere  tutte lo stesso rispetto per gli altri esseri viventi a cominciare dagli uomini, le donne, gli animali e le cose.

Il bambino cerca di conoscere il mondo attorno a sé attraverso la gamma dei sensi, per cui è normale che metta in bocca tutto ciò che trova, poi cercherà di rompere ogni cosa per capire come sia fatta, ma la guida non tarperà questo istinto di ricerca ma lo guiderà, solo così da grande non lo farà sui beni comuni e sulle persone, saprà dosare la propria forza e contenere la propria irruenza.

Tutto questo non si impara in un corso di affettività ma lo si impara con l’esempio e l’affetto; non avrà bisogno di genitori despoti o di facilitatori che lo renderanno incapace di capire che la vita è difficile, non gli sarà concesso di essere capriccioso o di avere tutto ciò che desidera ma ciò che gli è necessario, non avrà bisogno di avere un sindacalista che lo tuteli quando un maestro gli avrà messo un voto che misura il grado della sua impreparazione, ma dovrà imparare a riconoscere i propri errori e rispettare l’autorevolezza di che è preposto alla sua educazione.

Avrà quindi bisogno di genitori capaci di fare il loro mestiere che è uno dei più difficili da imparare, se non si è stati diseducati da una società che ha perso tutti i riferimenti e vive solo nella ricerca del successo senza sacrifici, nella ricerca del denaro per soddisfare bisogni inventati, vittime di influencer che si arricchiscono sulla stupidità di chi ha declinato al proprio ruolo.

Ora sentiamo dire che i corsi di affettività coinvolgeranno proprio quegli influencer per formare i giovani di domani, comandati quindi da chi ha il solo interesse a fare profitti.

Sembra incredibile che la maggior parte dei politici per semplici interessi elettorali, ovvero per il mantenimento del potere, possano veramente credere che debba essere questa la strada da seguire.

Provo una gran pena per la famiglia di Giulia, ma assai maggiore per quella di Filippo, il mostro, quello che avuto tutto da una famiglia senza alcuna macchia. Tuttavia non so se con il logorante lavoro che svolgevano abbiano potuto raccontare fiabe la sera prima che il piccolo Filippo si addormentasse, se potevano accorgersi delle sue solitudini, o delle sue ansie.

Senza voler apparire cinico, così come un computer può uscire dalla fabbrica con qualche difetto costruttivo così alcuni bambini nascono con alcuni difetti costruttivi; è appena il caso di citare la piccola Indi Gregory la cui vicenda ha riempito i media nelle scorse settimane, e non intendo entrare nel merito della correttezza della decisione presa, valutazione che non c’è stata neanche da parte della più alta espressione della cristianità, ma quello che intendo dire è che l’impossibilità di attivare gli autonomi strumenti per la produzione dell’energia per far funzionare quel corpicino e tutto il suo potenziale meraviglioso, non poteva funzionare.

Non possiamo escludere quindi che se la famiglia, la scuola, la società non ha compreso che il soggetto presentava un qualche problema, esso era ben nascosto nella struttura della memoria centrale, denunciando semplicemente quindi la nostra ignoranza scientifica.

Ma se ciò non fosse allora cerchiamo di riattivare, colle opportune correzioni, quella antica famiglia forse patriarcale, quella nella quale le distinzioni tra uomo e donna erano basato sul rispetto degli individui e dei valori e non abbiate paura di individuarla come famiglia borghese.

Queste mie considerazioni non sono di oggi, infatti, quando nel 2018 sono stato candidato alle elezioni politiche, avevo stilato un programma in molti punti che, integrato con un preambolo elaborato da un mio amico, divenne il programma dell’intero partito; in uno dei punti era tra l’altro scritto:

  1. Revisione complessiva della scuola dell’obbligo. Non si contrappone la buona scuola al niente;
  2. Riforma dei formatori;
  3. Basta con il buonismo;
  4. Recupero del rispetto per i docenti;
  5. Riforma dei genitori.

L’attualità di quelle parole è quasi più dolorosa delle odierne conseguenze.

 

*già Professore Ordinario presso l’Università degli Studi di Salerno

Giuseppe Moesch Giuseppe Moesch

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