Dentro l’ennesimo femminicidio. L’imperativo categorico è capire

di Pierre De Filippo

È finita come tutti s’aspettavano tristemente che finisse, col corpo di Giulia Cecchettin trovato, dopo giorni di ricerche, nei pressi del lago di Barcis, in provincia di Pordenone, in una scarpata. L’ha uccisa, accoltellandola, il suo ex fidanzato Filippo Turetta, arrestato in Germania. La uccisa dopo l’ennesimo litigio perché lei lo aveva lasciato e, nonostante fossero rimasti amici, con quel ragazzo troppo appiccicoso, troppo geloso proprio non voleva tornare.

Giulia Cecchettin

È l’ultima, Giulia, di una lista purtroppo troppo lunga e troppo drammatica per passare inosservata, per non definire questa strage una sorta di sistema, di “normalità nell’anormalità” in cui ci è dato vivere.

Di Giulia Tramontano e della sua triste storia ormai sappiamo tutto: uccisa, al settimo mese di gravidanza, da Alessandro Impagnatiello a Senago, ormai impelagato in una doppia relazione e una doppia vita che stavano finendo per soffocarlo; di Teresa Di Tondo sappiamo, invece, meno: aveva 44 anni, viveva a Trani, era sposata con Massimo Petrelli ed avevano un figlio adolescente. Suo marito, un ex speaker radiofonico, l’ha uccisa a coltellate, prima di impiccarsi ad un albero.

Mariella Marino, 56 anni, è stata uccisa a metà luglio a Troina, in provincia di Enna. Dopo averla attesa fuori da un supermercato, l’ex compagno Maurizio Impellizzeri, le ha puntato una pistola contro ed ha aperto il fuoco. Klodiana Vefa, trentacinquenne di Castelfiorentino, di origini albanesi, è stata presa a pistolettate dal suo ex compagno, il connazionale Alfred Vefa, alla fine di settembre.

E poi Martina, Alina, Sara, Iulia, Pierpaola, Floriana, Sofia, Anna, Annalisa, Etleva.

Una mattanza.

Una mattanza operata da uomini che dicevano di amarle.

Ora, avrebbe poco senso entrare nelle dinamiche, torbide e oscure, di ciascun caso. Ogni storia ha il suo movente, la sua essenza, la sua narrazione. L’infinito elenco ci impone, però, di fare qualcosa di più e di diverso che limitarci a condannare e a provare rabbia.

Dobbiamo capire. Capire con la massima razionalità possibile il perché.

Innanzitutto un chiarimento, che so essere pericoloso e scivoloso ma, tuttavia, necessario. Un femminicidio non può aversi in ogni circostanza in cui un uomo uccide una donna. No, Raskolnikov non uccise per possesso, per spietatezza o per passione. Ma non per questo si sentì meno in colpa. Un femminicidio, se davvero ci interessa comprenderne le dinamiche, deve avere delle caratteristiche precise e, soprattutto, riconoscibili per affrontare nel modo giusto questa minaccia sociale.

In secondo luogo, la forca. L’opinione pubblica, ipocrita come solo lei sa essere, puntualmente invoca la forca, la sedia elettrica, la pena di morte. Lo diciamo ogni volta e ogni volta siamo più soddisfatti, più in pace con la coscienza. Poi succede ancora e lo ribadiamo nuovamente, così, giusto per evitare che qualcuno lo dimentichi.

Risultati concreti? Zero.

E poi c’è la scuola, l’educazione. Perché – è il leitmotiv del nostro tempo – “il problema è culturale”. È sempre culturale. Qualsiasi cosa accada, il problema è culturale ma guai se qualcuno iniziasse non dico a fare qualcosa per cambiarla, questa cultura del “patriarcato”, ma perlomeno a studiarla, a capirla.

Niente, ci diciamo – e ce lo diremo anche questa volta – che il problema è culturale. E finisce lì. Perché anche questa formuletta ci consente di sederci al pranzo domenicale con una sufficiente tranquillità di spirito.

Sia chiaro: le pene devono essere giuste e l’educazione non è mai troppa.

Ma forse, arrivati a questo punto, dovremmo fermarci un attimo, tutti, e chiederci cosa caspita sta succedendo. Chiederci perché un uomo di mezz’età che non è mai stato violento decida di prendere una pistola e uccidere la sua compagna; chiederci perché un ragazzo che ha tutta la vita davanti decida di rovinarsela, e rovinarla definitivamente alla sua compagna, con un gesto fatale. Dobbiamo chiederci cosa passa nelle teste di ciascuno e nell’aria che ognuno di noi respira. Dobbiamo chiederci che peso ha la solitudine del nostro tempo, quella dei social e delle stanzette buie; quella dei ragazzi per i quali il sesso o è violento o non è.

Ai nostri psicanalisti, ai nostri sociologi, ai nostri criminologi una richiesta: smettetela di andare in Tv a ribadire concetti triti e ritriti. Chiudetevi nei vostri studi e ragionate sul perché, sul perché ora e sul perché con tale virulenza. Quando ne uscirete, ne sapremo di più tutti. Così si fa servizio pubblico.

Pierre De Filippo Pierre De Filippo

Pierre De Filippo

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