12 novembre 2003 la strage di Nassirya, il ricordo vent’anni dopo
di Giuseppe Moesch*
Ero tornato da qualche mese e in quella giornata aspettavo una telefonata dall’ingegnere che coordinava il gruppo di tecnici che dovevano materialmente redigere il Piano dei Trasporti di cui ero coordinatore; i miei impegni universitari mi avevano impedito di far parte di quel gruppo.
Fui sorpreso quando squillò il telefono verso le dieci del mattino, ed udii la voce del mio amico ingegnere coordinatore, che con voce rotta dall’emozione mi dette la notizia dell’attentato terroristico che esattamente vent’anni orsono aveva praticamente distrutto la base di Nassirya.
Gli uomini del gruppo di cui ero coordinatore erano arrivati nel luogo in cui dovevano ricevere le indicazioni logistiche per il loro lavoro.
La caserma a Nassiriya dove morirono 28 persone tra le quali 19 italiani e 9 iracheni, era la vecchia sede della camera di commercio, che oggi è di nuovo sede di quella organizzazione. Ebbi modo di visitarla qualche mese prima dell’attentato, quando, opportunamente scortato, stavo viaggiando nel Paese in qualità di responsabile del redigendo Piano dei Trasporti, per capire il funzionamento e conoscere le infrastrutture di trasporto esistenti e per organizzare la successiva missione di tecnici che avrebbero dovuto approfondire la mia relazione.

I miei colleghi avrebbero dovuto arrivare in quella caserma il 12 novembre 2003, ovvero lo stesso giorno dell’attentato che avvenne alle 8:40, mentre fortunatamente per loro, arrivarono da Bagdad intorno alle 10.
In occasione della mia visita dopo un ricevimento di benvenuto, ovviamente organizzato per le autorità civili e militari con le quali viaggiavo, avemmo modo di chiacchierare con gli ufficiali ed i soldati del contingente italiano, rumeno e portoghese che erano presenti, che ci confermarono che la situazione era tranquilla e la popolazione cordiale e collaborativa e dopo il caffè ci chiesero se volevamo visitare la piccola caserma ricavata dalla sede residenziale.
Al pian terreno c’erano gli uffici e le strutture militari, mentre le camerate si trovavano al primo e secondo piano ed infine sul terrazzo, insieme agli indumenti stesi ad asciugare c’erano due mitragliatrici pesanti, rivolte verso i due lati dell’edificio, che affacciava su un piccolo giardino, il quale costeggiava un fiume, sulle cui due rive correvano delle ampie strade. Guardando dal terrazzo dell’edificio, si notava sulla sinistra un ampio viale a due corsie per senso di marcia con uno spartitraffico, viale che proseguiva oltre il ponte che scavalcava il fiume.
L’accesso alla base si trovava su questo viale, e vi si accedeva attraverso una piccola stradina interrotta da una barriera lignea che, al momento della nostra visita fu sollevata da una donna alta e robusta in divisa da bersagliera, che ci sorrise amichevolmente ed indicò agli autisti dove parcheggiare dinanzi alla mensa.
Sul lato opposto del viale d’accesso si notava un altro edificio civile un poco più grande ma localizzato in posizione più arretrata rispetto alla strada ed al ponte. Non ho avuto esperienze di logistica militare, ma la mia esperienza di localizzazione industriale ed infrastrutturale mi fece sorgere una preoccupazione, che esternai ai miei esperti colleghi diplomatici e militari e che sottoposi al comandante pro tempore della base chiedendogli come mai avessero scelto quella sede così platealmente vulnerabile e non ad esempio quella di fronte con maggiori spazi per la difesa.
Mi fu risposto che quell’edificio era occupato da sfollati ed alle mie insistenze mi si rispose con sufficienza che non si poteva allontanarli e quando insistendo gli chiesi perché non si fosse fatto uno scambio, il comandante mi ignorò come se si fosse trovato di fronte ad un minus habens.
Rimanemmo tutti sorpresi ma capimmo che non dovevamo insistere. Un paio di mesi dopo i miei collaboratori mi chiamarono per dirmi che per poco non erano rimasti coinvolti nell’attentato.
Quel giorno di guardia all’ingresso della base principale c’era il carabiniere Andrea Filippa che riuscì a uccidere gli attentatori, tant’è che il camion non esplose all’interno della caserma ma sul cancello di entrata, evitando così una strage di più ampie proporzioni.
La mia valutazione che la sede fosse localizzata male è stata avvalorata in parte da una delle due inchieste aperte su questi fatti, ovvero quella avviata dalle autorità militari che era tesa a scoprire se fosse stato fatto tutto il necessario per prevenire gli attacchi. Le due forze armate coinvolte sono giunte a conclusioni diverse.
L’Esercito ha chiesto una consulenza al generale Antonio Quintana, secondo il quale sistemare la base al centro della città e senza un percorso obbligato a zig-zag per entrare all’interno di essa era stato un errore, mentre per la commissione nominata dall’Arma dei Carabinieri, guidata dal generale Virgilio Chirieleison, non ci sono state omissioni nell’organizzazione della sicurezza della base.
Lo stesso Abū ʿOmar al-Kurdī, terrorista di al-Qāʿida, reo confesso dell’organizzazione dell’attentato, ha affermato che era stata scelta la “Base Maestrale” in quanto si trovava lungo una strada principale che non poteva essere chiusa.
Non è certo una grande soddisfazione sapere che avessi avuto ragione a denunciare quella assurda scelta e a vederla respinta come una sciocchezza da parte di chi aveva sicuramente studiato di arte militare e conosceva tutti i manuali di difesa e di offesa, ma che probabilmente non aveva mai avuto rapporti con la guerra vera, con gli uomini sul terreno, e con il buon senso che è o dovrebbe essere alla base dei nostri comportamenti.
Sono cero che lo spirito di corpo abbia spinto a negare quello che a mio modesto avviso era stato un errore di sottovalutazione, perché probabilmente anche se tutte le indicazioni dei manuali erano state rispettate, anche se la sostanza era stata la strage.
Temo che nella valutazione sia rientrata anche la difficoltà di raccontare ai familiari dei caduti che si sarebbero potute risparmiare quelle morti con dei decisori capaci di pensare con la propria testa e non rispondere semplicemente al “bugiardino del fai da te della guerra” fornito con il grado appuntato sulla divisa. Il paradigma comportamentale indica cosa fare negli schemi predefiniti e non prevede variazioni su tema.
Oggi la mia sensazione di rabbia permane. Mi rimane forte il ricordo del sorriso della bersagliera, l’affabilità dei mitraglieri sul tetto, l’intimità delle brande occupate da alcuni soldati fuori servizio, dei panni stesi e delle immagini che ci vennero proposte dalla televisione, oltre dai racconti dei miei colleghi al ritorno dalla loro missione.
Tutti quei morti per la supponenza di uno o più ottusi burocrati, che a differenza di quelli che lavorano oggi come ieri e come sempre, consapevoli delle proprie responsabilità e con la certezza di operare per il bene comuna del loro Paese ma principalmente degli uomini che dalle loro decisioni dipendono, che sono tenuti a rispettare, non ebbero l’umiltà di correggere le proprie erronee valutazioni e la resipiscenza dopo la tragedia di riconoscere il proprio errore e la propria incapacità.
È lo stesso disagio che provo di fronte all’inazione dei politici che davanti ai reali problemi del Paese, trascurati ed ignorati, che per un pugno di voti che possano permettere loro loro di sopravvivere sul mare di liquami sul quale galleggiano per la loro proprietà intrinseca, voltano il viso dall’altra parte fomentando l’opinione pubblica ed i giovani in particolare.
*già Professore Ordinario presso l’Università degli studi di Salerno
