Flaiano settant’anni dopo

di Giuseppe Moesch*

Nel 1947 Ennio Flaiano vinceva il primo premio Strega, fondato quell’anno, con il libro “Tempo di uccidere” e successivamente in “Diario notturno” nei vari Taccuini scriveva la famosa frase: “La situazione politica in Italia è grave ma non è seria”.

Oggi questa riflessione è quanto mai attuale e dispiace notare che essa viene usata in maniera scherzosa e non si considera che essa appare di stringente attualità.
Nello stesso libro si legge ancora: “Troppa gente che «vuole», piena soltanto di volontà (non la «buona volontà» kantiana, ma la volontà di ambizione); troppi incapaci che debbono affermarsi e ci riescono, senz’altre attitudini che una dura e opaca volontà. E dove la dirigono? Nei campi dell’arte, molto spesso, che sono oggi i più vasti e ambigui, un West dove ognuno si fa la sua legge e la impone agli sceriffi. Qui, la loro sfrenata volontà può esser scambiata per talento, per ingegno, comunque per intelligenza.

Così, questi disperati senza qualità di cuore e di mente, vivono nell’ebbrezza di arrivare, di esibirsi, imparano qualcosa di facile, rifanno magari il verso di qualche loro maestro elettivo, che li disprezza. Amministrano poi con avarizia le loro povere forze, seguono le mode, tenendosi al corrente, sempre spaventati di sbagliare, pronti alle fatiche dell’adulazione, impassibili davanti ad ogni rifiuto, feroci nella vittoria, supplichevoli nella sconfitta. Finché la Fama si decide ad andare a letto con loro per stanchezza, una sola volta: tanto per levarseli dai piedi.”

I due aforismi letti congiuntamente ci permettono di descrivere con stringente e sufficiente sintesi la situazione del nostro Paese, non più solo con diretto riferimento al solo mondo dell’arte, bensì alla degenerazione di un intero mondo in cui l’ignoranza e la smania di potere per il potere, caratterizza tutti gli strati della popolazione.
L’ebbrezza di arrivare e di esibirsi ha trovato il più grande palcoscenico disponibile ovvero quello dei social, e non si sottraggono ad esso anche coloro che dovrebbero essere guida e riferimento per la collettività, cioè i politici.

Stiamo assistendo in questi giorni all’escalation del dibattito su come affrontare il dramma dei migranti; esodi biblici, memorie delle invasioni di barbari di tempi passati affiorano e tutti propongono ricette per tentare di affrontare i problemi senza alcun riferimento alle differenti cause che lo generano, solo interessati a cercare il pericolo rappresentato dal rischio di perdita del benessere acquisito.

Le cause sono di diversa origine.

In passato le pressioni di popolazioni affamate, o la smania di conquista erano la totalità delle spinte originarie.
Senza andare troppo indietro nel tempo le spinte delle popolazioni della steppa ci portano a ripensare ai barbari rispetto ai romani, ai turchi rispetto agli imperi preesistenti in Anatolia, cui seguì tra l’altro l’esodo degli albanesi, o alla costruzione della grande muraglia a difesa del nascente impero cinese.

Più recentemente lo sviluppo del colonialismo con le successive più a noi prossime ribellioni dei paesi dominati, che si trascinano fino a noi o la sempre presente voglia di potere e di dominio che hanno portato alle guerre mondiali, fino alle ultime intemperanze del governo russo, che nostalgicamente insegue il sogno della grande madre dominante tra Asia ed Europa ed il sogno di Erdogan di ricostruire il califfato.

Ma non è solo nella mania di grandezza dei moderni dittatori che ritroviamo quel fenomeno, ma oggi con maggiori possibilità di successo che in passato si aggiunge anche il predominio economico, pur se è sempre stato presente anche in passato, basti pensare agli Stati Uniti, alla Cina ed anche alla Francia che con l’Inghilterra ha determinato la caduta di Gheddafi in nome della libertà ma in realtà nella speranza di sostituirsi nella posizione di interlocutore privilegiato in quel Paese.

La stessa Francia sta oggi perdendo il controllo dell’area francofona sub sahariana, per l’intervento dei mercenari e degli operatori russi per motivazioni sia di natura politica ma assai più marcatamente economica.
Migrazioni sui confini orientali per la guerra in Ucraina e sulla rotta balcanica provenienti dall’Afganistan, dalla Siria e dalle altre aree mediorientali mentre sul confine meridionale oltre che per le guerricciole in Somalia, Etiopia e Sudan e le tensioni nelle zone sub sahariane, e le carestie e la siccità.

Sono le speranze di una vita migliore quelle che spingono grandi masse di disgraziati ad inseguire il sogno di benessere occidentale che viene mostrato in TV e sui social.
Ricordo che quando all’inizio degli anni novanta misi piede per la prima volta nella cosiddetta Africa nera, insegnando all’Università di Maputo in Mozambico, ne tornai con la netta sensazione che il più grande danno che l’occidente stava provocando ai paesi africani, più degli effetti del colonialismo antico e recente, era rappresentato dal modello che appariva attraverso la televisione.

Se, come mi era capitato più volte, aveste provato a telefonare a casa o in ufficio di qualcuno intorno all’ora di cena, o non ricevevate risposta o qualcuno vi rispondeva in malo modo che non c’era nessuno. Buona parte della popolazione in possesso di una televisione era davanti ad essa, e quelli che non l’avevano si riunivano in luoghi pubblici dove era possibile assistere, come avveniva in Italia con le prime puntate di “Lascia o Raddoppia”, alla proiezione di telenovelas brasiliane essendo la lingua ufficiale mozambicana il portoghese.

Era convinzione comune che nel ricco occidente ed in sud America non si lavorasse, ma che la vita trascorresse tra un aperitivo e una cena in residenze sfarzose, dove fiorivano storie d’amore meravigliose, in mezzo ad intrighi e faide familiari.
Così le giovanissime e graziose fanciulle locali cadevano ai piedi dei conquistatori cooperanti di mezzo mondo, visti come banche ambulanti, che offrivano la possibilità di vivere quella vita in scala ridotta.

Frigoriferi sempre pieni di bibite gassate e liquori, la sera a cena e a ballare, piccoli regalini, argent de poche, questa la vita che veniva loro offerta, mentre il resto della popolazione cercava di arrangiarsi per tentare di raggiungere quegli stessi obiettivi, magari raggiungendo quei paesi di cuccagna.

Moltissimi dei migranti di oggi continuano ad inseguire quel sogno e addirittura interi villaggi si tassano per permettere ad uno o più di loro di raggiungere il paradiso, pagando i costosi passaggi dei trafficanti, sperando in una futura redistribuzione di quella futura e sicura ricchezza.

Il paradosso più incredibile è che quasi tutta l’Africa è un continente ricco di materie prime, cosa che spinge i paesi così detti avanzati ad impossessarsi delle stesse.
Accanto a progetti di sviluppo che coinvolgono le popolazioni locali, si sono visti progetti avallati da ottusi burocrati a supporto di ONG che offrivano pannicelli caldi con interventi destinati a sostenere le strutture nei paesi d’origine. Sfruttando il volontariato con miserevoli contributi, emotivamente coinvolto nelle miserie di quegli uomini, avviare progetti che costavano cifre enormi ai contribuenti, e che indirettamente finivano spesso nelle tasche dei partiti che li sostenevano.

Ho visto in Angola gruppi di architetti insegnare ai locali a costruire le loro capanne di paglia, sui modelli da loro realizzati da secoli, impianti di captazione e distribuzione dell’acqua per irrigare campi di sperimentazione agraria trascurando di offrirne anche lungo il percorso ai villaggi che venivano bypassati, ignorando gli uomini che vivevano di stenti e che per procurarsi quel bene essenziale dovevano percorrere chilometri.

Ho visto un impianto all’epoca modernissimo di surgelamento ed inscatolamento del pescato mai entrato in funzione; comprendeva due barche da pesca d’alto mare e due grandi reti da profondità, in dotazione, delle quali una ferma mai entrata in servizio e l’altra che non portava a terra che pochissimo prodotto che veniva venduto sul posto, essendo il resto venduto al largo sul luogo di pesca, ad una nave fattoria spagnola.

Nel luogo di captazione dell’acqua che serviva per l’impianto di surgelamento a circa una ventina di chilometri di distanza, non c’era la possibilità di irrigare ed i poveri prodotti coltivati erano di dimensioni lillipuziane.

Ho visto un intervento di ristrutturazione di un padiglione pediatrico eredità portoghese, consistito in una imbiancata a calce, con tanto di targa celebrativa in ottone, privo di qualsivoglia arredo salvo un paio di tavoli e qualche sedia, dove una bilancia ed uno stetoscopio, ambedue appartenenti alle infermiere, erano i soli presidi medici presenti insieme ad una mezza bottiglia di plastica piena di varichina nella quale galleggiava il cadavere di un grosso coleottero.

Era questa un’appendice dell’ospedale in cui l’odore di cadavere sovrastava ogni cosa ma che era dotato di letti in padiglioni diversi a secondo delle principali patologie, circondati dalle case per i parenti dei pazienti che aiutavano in carenza di altro personale. In compenso era presente una sala operatoria in un salone scalcinato in cui faceva bella mostra di sé un malridotto tavolo operatorio militare da campo, mentre in un vicino sgabuzzino erano raccolti gli scarsi medicinali disponibili, la cui parte preminente era rappresentato da kit per diabetici donati da un paese del nord Europa.

Sono passati quasi trent’anni e molte cose sono cambiate, in particolare nelle grandi città che oggi hanno visto crescere la speculazione edilizia e dove il costo della vita è in alcuni casi superiore a quello delle grandi capitali occidentali, mentre le zone interne sono rimaste allo stato in cui erano in passato.

E ci si meraviglia che oggi assistiamo a quella massiccia fuga, a quell’esodo che non vede partire solo profughi da guerre fratricide alimentate dalle armi e dagli interessi occidentali ed estremo orientali.
Nessuno sembra avere una soluzione e tutti sono pronti a criticare quelle prospettate dall’uno o dall’altro governo.

La solidarietà europea è inesistente e se viene attivata è per alcuni stati solo se riferibile agli individui con grado di istruzione elevato per far fronte alle proprie esigenze interne.
Il numero degli arrivi è cresciuto a dismisura ed a Lampedusa che si trova a 210 km dalle coste siciliane e solo 152 km da quelle africane con in mezzo il Mediterraneo, un mare relativamente tranquillo, sono quasi centomila da inizio d’anno.

La Francia e la Germania hanno confermato che non accetteranno profughi non legalmente entrati ma anzi rimanderanno indietro quelli sfuggiti al controllo italiano; il governo ha deciso di incrementare il numero dei punti di raccolta sia per alleggerire il peso su Lampedusa, sia per poter gestire più facilmente il tutto, avvalendosi delle Regioni e degli Enti Locali, ed immediata è stata la reazione delle opposizioni che hanno affermato che si vuole creare una rete di campi di concentramento di passata memoria carceri a cielo aperto dove rinchiudere uomini, donne e bambini.

La cosa singolare in questa situazione è che si sta ampliando una istituzione che già esiste, ovvero i CIE.
Leggo su Wikipedia che i centri per l’identificazione e l’espulsione degli stranieri irregolari sono uno strumento diffuso in tutta Europa in seguito all’adozione di una politica migratoria comune degli stati dell’Unione europea sancita negli accordi di Schengen del 1995. Nel 1998 viene approvata in Italia la seconda legge che si proponeva di disciplinare in maniera organica i fenomeni legati all’immigrazione, la legge Turco-Napolitano (L. 40/1998), con la quale vengono istituiti i CPT (centri di permanenza temporanea). La precedente legge che regolava la materia era la legge Martelli (l.39/1990), che convertiva in legge un decreto del 1989. Il Parlamento italiano nel luglio 2002 ha approvato una nuova legge sull’immigrazione, la cosiddetta legge Bossi-Fini (l. 189/2002). Con il decreto legge n. 92 del 23 maggio 2008 “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”, poi convertito in legge (L. 125/2008) i Centri di permanenza temporanea assumono il nome di “Centri di identificazione ed espulsione”.

Tutti i leader attaccano questo governo ed alcuni parlano della legge Maroni per addossare alla Lega la responsabilità morale dei campi di concentramento, facendo finta di niente rispetto al fatto che l’origine è da ascrivere alla firma di due politici italiani degli anni passati, ovvero Livia Turco e Giorgio Napolitano, noti per esser stati esponenti di governi ultraconservatori e fascisti essi stessi o forse no.

Tutto quanto sopra è vero, sgradevolmente vero. Purtroppo non esistono soluzioni facili a problemi complessi. Tuttavia è necessario essere precisi e sereni nella ricostruzione dei fatti.
Quello che resta è l’analisi sconsolata e rassegnata di Flaiano citata sopra, che oltre alla miseria degli uomini mediocri che popolano oggi il mondo, evidenziava in particolare per il nostro Paese che: “La situazione politica in Italia è grave ma non è seria”.

*già professore Ordinario presso l’Università degli Studi di Salerno

Giuseppe Moesch Giuseppe Moesch

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