In memoria di Salvo D’Acquisto: la forza dell’esempio

di Pierre De Filippo

Ricorre oggi, 23 settembre, l’ottantesimo anniversario del sacrificio di Salvo d’Acquisto, che è passato alla storia attraverso la difficilissima prova della forza dell’esempio.

Figlio di una numerosa famiglia napoletana, fortemente cristiana, si arruolò come Carabinieri nell’estate del 1939, quindici giorni prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale.

Con l’ingresso dell’Italia in guerra, nel giugno del 1940, chiese ed ottenne di essere mandato nella Libia italiana dell’epoca per la Campagna del Nordafrica, che durò, senza alcuna fortuna, tre anni.

Ferito ad una gamba a seguito di uno scontro a fuoco con gli inglesi e malato di malaria, fece ritorno in Italia nel 1942 dove ottenne il grado di vicebrigadiere e fu destinato alla stazione dei carabinieri di Torre di Pietra, lunga la via Aurelia, in quella che oggi è una frazione del comune di Fiumicino.

Leale al posizionamento politico e bellico dell’Italia, dopo l’armistizio caotico e confusionario dell’8 settembre rimase quello che era sempre stato: un carabiniere, fedele al giuramento, prima di tutto morale, che aveva fatto.

Proprio pochi giorni dopo l’armistizio dell’8 settembre, un reparto di paracadutisti tedeschi, ancora impegnati nella campagna italiana, aveva trovato riparo e rifugio in vecchi edifici della Guardia di Finanza di Torre Perla di Palidoro, che ricadeva sotto la giurisdizione di Torrimpietra.

Qui, maneggiando delle vecchie casse di munizioni i militari tedeschi furono investiti da una potente esplosione che fece due morti e due feriti. Una tragica casualità.

Ed invece il caporeparto, che non vedeva l’ora di poter rinfocolare il sentimento antitalico che, ormai, la Germania aveva maturato chiamò a rapporto il vicebrigadiere D’Acquisto. Era stato un attentato, un attentato di guerra a tradimento e, se l’ufficiale italiano avesse voluto evitare delle rappresaglie indiscriminate, avrebbe dovuto concorrere all’indagine e trovare i colpevoli entro l’alba successiva.

Kesselring aveva fatto scuola: ora, dopo l’armistizio, non esistevano più regole. L’unica sopravvissuta era quella della rappresaglia. Della vendetta. Dell’odio.

Quel 23 settembre, il paese fu rastrellato e ventitré persone, uomini e ragazzi presi a caso, furono prese e portate sul luogo dell’esecuzione. Tra di loro c’era Angelo, di diciotto anni; c’era Benvenuto di cinquantadue anni, il più anziano; c’era Vincenzo, ventisette anni, muratore e padre di due bambini; c’erano Erminio, Natale, Oreste e Sergio.

C’erano ventitré innocenti.

Tutto ciò era insopportabile per il giovane Salvo, che di anni ne aveva ventitré, un numero che ritorna. Tanto insopportabile da rendergli sopportabili le bastonate e le ingiurie. Tanto insopportabile da rendergli sopportabile l’ingiustizia più grande: quella della sua morte.

Salvo D’Acquisto, il carabiniere, quello che aveva giurato lealtà, si accusò dell’incidente: “se volete un colpevole, allora l’avete davanti: sono io”, e consentì che le altre ventitré persone venissero liberate.

Fu ucciso da una scarica di un’arma automatica. Fu ucciso lì, su quel litorale, dove i tedeschi avevano chiesto ai ventitré condannati di scavare delle buche, quelle nelle quali sarebbero stati sepolti. Fu ucciso da innocente e da eroe, come riconobbero gli stessi tedeschi.

Ma prima di morire lasciò e lanciò un messaggio a chiunque avesse voluto ascoltarlo: “Viva l’Italia”.

Sì, viva l’Italia. Nonostante tutto.

 

 

 

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