Sono giovane da più tempo
di Giuseppe Moesch-
Sono giovane da più tempo, molto più tempo.
Nel corso della mia esistenza ho avuto modo di vivere molteplici esperienze; non ho vissuto da Rambo né tantomeno da impiegato del catasto, anche se tutti, siano essi operai, magistrati, insegnanti, commercianti, industriali, sacerdoti, hanno dovuto vivere esperienze di violenza se non fisica almeno psicologica dovendo accettare prevaricazioni e vessazioni di ogni tipo.
Sono nato e vissuto, fino a quasi trent’anni, in una città che è stata da sempre vista come città violenta, e devo dire che anche io l’avevo considerata tale a partire da quella perpetrata sul territorio, magistralmente descritta da Rosi in “Mani sulla città”, a quella sulla popolazione priva di occasioni di lavoro, se non quelle offerte dalla malavita nel contrabbando, a quella che si materializzava nella emarginazione di abitazioni fatiscenti, baracche di lamiera come quello che oggi vediamo in alcune periferie. dove nella più grande promiscuità vivevano i diseredati dell’epoca.
Il mio primo lavoro fu in un centro studi alla facoltà di Ingegneria di via Claudio, vicino al nuovo Stadio San Paolo, oggi Maradona, in una zona solo in parte bonificata, dove restavano ancora in piedi numerose pseudo case di lamiera occupate da sfollati dalla guerra, dopo oltre venticinque anni. Dopo le varie assicurazioni da parte delle amministrazioni che si erano succedute, non avevano ricevuto risposte alla loro richiesta di alloggi popolari e così un giorno decisero di protestare usando noi ricercatori come bersaglio, sperando di poter così amplificare la loro protesta, che consistette nel versare dal cancello che ci separava, sulle nostre auto parcheggiate sul confine, tutta la massa di escrementi umani, che in assenza di qualsivoglia sistema igienico si accumulano nelle loro case e venivano normalmente sversate sulle strade.
Questa violenza sociale era diversa da quella personale che avevo già conosciuta assistendo a qualche rissa per strada, ma anche personalmente a scuola, quando un giorno, dopo una discussione credo insignificante che infatti oggi non ricordo più nei contenuti, un mio compagno che come me veniva a scuola in giacca e cravatta, ma appartenente ad un ambiente sociale molto diverso dal mio, probabilmente di matrice camorristica, all’improvviso mi prese con violenza per il collo, con un gesto che mi apparve così assurdo e lontano dal mio modus vivendi. Non ero preparato e per fortuna altri ci separarono, ma ebbi la netta sensazione di essere assolutamente impreparato ad affrontare quella realtà sconosciuta.
Ho viaggiato molto, sono stato credo in quarantadue diversi Paesi del mondo, in occidente, in medio ed stremo oriente, in America del sud e del nord, per turismo e per lavoro, e specialmente nelle zone di guerra ho avuto modo di vedere gli esiti della violenza e gli effetti sulle cose ma soprattutto sugli uomini, le donne e i bambini.
Non credo sia possibile esprimere le sensazioni che si provano visitando un ospedale da campo dove vengono curati i feriti delle mine o vedere nella enorme tenda che fungeva da sala d’attesa all’aeroporto di Bagdad, dove all’ingresso una lunga multipla serie di centinaia di foto elencava i nomi dei caduti dei quali solo qualche decina aveva superato i trent’anni.
In quella stessa tenda ho visto una ragazza che non aveva nemmeno vent’anni, poco più dell’età di mia figlia all’epoca, distrutta dalla stanchezza, appoggiata alla sua grossa arma d’ordinanza e piegata su uno zaino più pesante di lei, al quale era legato un astuccio per le matite e le penne simile a quello che usavano i nostri figli, a cui era attaccato un piccolo orsetto di peluche. Credo che fosse sudamericana, e come moltissimi altri si era arruolata, per ottenere, se fosse sopravvissuta, il diritto di studiare a spese dello Stato.
Ho visto in Angola l’applicazione pratica della stupidità dei burocrati dell’UNICEF, che finanziando le scuole per i bambini, consistenti nello stipendio per il maestro e nell’acquisto di seggioline di plastica, miniature di quelle che si vedono nei bar di paese, e di una lavagna appesa al tronco di un grosso baobab, emanavano anche dei rigidi regolamenti che impedivano ai bambini di andare a scuola sporchi, con la conseguenza che metà dei banchi erano vuoti perché i genitori erano troppo poveri per avere vestiti di ricambio e non avevano di che comprare il sapone.
Tralascio altri esempi ma ho voluto affrontare questi temi perché mai sono rimasto così attonito ed atterrito come leggendo in questi giorni i resoconti di storie che sempre più frequentemente riempiono le cronache dei giornali e dei social.
A parte il crescente numero di uccisioni e di violenze sulle donne che quotidianamente ci vengono riproposte come le previsioni del tempo, a cui seguono le fiaccolate, i cortei, i comizi le panchine e le scarpe rosse, novelli feticci da esporre in maniera apotropaica, con l’emanazione di leggi apparentemente più severe per gli esecutori, quello che stupisce sembra essere la distanza della politica e della giustizia, che dietro lo schermo delle leggi vigenti non riesce ad intervenire con sufficiente celerità di fronte alle morti annunciate dal grido d’aiuto che le future vittime avevano lanciato.
Per favore non venite a parlarmi di privacy e di libertà di espressione, perché né io né tantomeno le vittime potremmo capire.
Ma ciò che appare più agghiacciante è quanto emerge dagli ultimi atti di stupri di massa a Palermo e a Caivano.
Il più giovane degli eroi di Palermo, messo in una comunità protetta ha avuto modo di commentare e forse condividere con i suoi amici le emozioni da lui provate, attraverso foto e video da lui girati, e le frasi scambiate con le “ammiratrici” scusandosi di non riuscire ad uscire con tutte.
A Caivano si è scoperta la storia in quanto i video sono giunti sul cellulare di un fratello di una delle vittime che ha così allertato i “distratti” genitori.
Non giustifico in nessun caso la violenza; posso capirla ma non giustificarla. Quello che mi indigna è che a Palermo si è riunita la struttura per l’ordine pubblico e si è deciso di bonificare la zona dei cantieri dismessi individuando in quei luoghi la matrice degli stupri.
È avvilente oltre che incredibile che non si avverta l’urgenza di un radicale intervento sulla demagogia imperante, e sulla miseria di una scuola incapace di formare dei giovani a valori di convivenza civile, e di intervenire in maniera drastica su quanto appare in rete dove un’ammucchiata appare come qualcosa di gradevole con soddisfazione di tutti, anche della vittima, che viene mostrata come quella più soddisfatta del gioco.
Solo un prete di frontiera come il parroco del quartiere di Caivano dove si è verificato l’ultimo stupro di gruppo ha sentito il dovere morale di denunciare il fallimento dell’intero sistema, in primis della scuola.
Fino a quando dovremo accettare che una miserrima classe dirigente della politica possa far finta di niente ed accettare tutto ciò senza prendere atto del fallimento e mettere mano a riforme che ci permettano di avere un futuro migliore senza pensare al rischio di perdere qualche voto?