23 maggio 1992: muore il giudice Falcone e la sua scorta.”Avete chiuso 5 bocche ne avete aperte 50milioni”
-di Claudia Izzo-
17.58, l’ora della strage. Ed in questo preciso istante noi rendiamo onore, nel nostro piccolo con questo articolo. Per non dimenticare.
Ritorna ogni 23 anni come un colpo al cuore l’anniversario della morte di un uomo, di sua moglie e della sua scorta che credevano così fermamente in ciò che facevano da sfidare tutto e tutti. Era il 23 maggio 1992 quando il magistrato Giovanni Falcone insieme a sua moglie, il magistrato Francesca Morvillo ed ai tre uomini della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani morivano in una strage di stampo mafioso.La prima auto blindata del corteo, infatti, venne investita in pieno dall’esplosione. La seconda auto, la Croma bianca guidata da Giovanni Falcone con a bordo la moglie, Francesca Morvillo, si schiantò contro il muro di asfalto e detriti provocati dalla deflagrazione. Gli agenti della terza auto invece, una Croma azzurra, dove si trovavano gli agenti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello, Angelo Corbo insieme con l’autista Giuseppe Costanza rimasero gravemente feriti insieme ad altre 23 persone.
Era un pomeriggio di maggio del 1992, 18 anni da dover compiere ancora. Si parlava di Esami di Stato e di andate al mare ma quella notizia giunse a squarciare le nostre coscienze, la quotidianità semplice di ragazzi che si affacciavano alla vita. Vivemmo il terrore degli anni ’70/’80 di cui avevamo però un fioco ricordo, qualche eco, perchè troppo piccoli per capire. In quel maggio ’92 capimmo invece in un attimo cosa significasse la lotta alla mafia, cosa significasse avere coraggio da vendere, cosa significasse credere in ciò che si faceva fino alle estreme conseguenze.
Nel tratto dell’A29, prima dell’uscita di Capaci, nel territorio dell’Isola delle Femmine, una bomba telecomandata creò l’inferno in terra. Del corteo della scorta del giudice con le tre Fiat Croma rimase poca cosa. Era quello il punto giusto, ben studiato, dove l’esecuzione avrebbe ottenuto una maggiore deflagrazione. Dalla collinetta difronte qualcuno ammirò anche lo “spettacolo” e per questo furono tagliati dei rami di alcuni alberi che ne avrebbero impedito la visuale.
Improvvisamente la Sicilia, luogo spensierato delle mie estati da ragazzina s’incupì per sempre. E’ come se avessi l’età e la consapevolezza per comprendere qualcosa di più grande di tutto. Quel mare del territorio dell’Isola delle Femmine, a cui si accede dopo una spiaggia di struttura rocciosa che porta al mare a mo’ di trampolino, era stato testimone della strage. La bellezza e la strage. La bellezza e la morte. Chissà quante volte lo sguardo del giudice Giovanni Falcone si sarà soffermato sulla bellezza della sua terra.
La stele commemorativa posta lì, sulla A29, parla di un massacro organizzato in seguito alla sentenza della Cassazione che confermava gli ergastoli del Maxiprocesso del 30 gennaio 1992. Una ritorsione studiata nei minimi particolari affinchè l’effetto sorpresa giocasse un ruolo fondamentale. Nel mirino c’erano Falcone, Martelli o in alternativa Costanzo, dovevano morire a Roma con l’utilizzo di armi da fuoco. Poi Cosa Nostra, nelle vesti del boss Riina, decise che l’attentato avrebbe dovuto avere come scenario la Trinacria.
Il caos, le lamiere, il sangue, la morte. Dalle celle dell’Ucciardone si disse in seguito che si levò un fragoroso applauso e si festeggiò. Sembrava uno stadio. Brindisi e abbracci. Certo, il nemico numero uno di Cosa Nostra era stato messo a tacere per sempre. Anche per il Generale Dalla Chiesa si fece festa all’Ucciardone. Ma quella era un’altra storia. Eppure sempre la stessa: persone da mettere a tacere affinchè il loro impegno, la loro tenacia, la loro incorruttibilità non ostacolassero il cammino della mafia.
Ancora sembra di udire il pianto disperato sull’altare della chiesa di San Domenico della vedova 22enne dell’uomo di scorta di Falcone, Vito Schifani … «Io, Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato, lo Stato… chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro, ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare… Ma loro non cambiano, loro non vogliono cambiare»…
Muore così il giudice e la sua scorta. E morirà dopo il Giudice Paolo Borsellino appena due mesi dopo, il 19 luglio, lo stesso che, rivolgendosi al Falcone con grande ironia disse: “Giovanni, ho preparato il discorso da tenere in chiesa dopo la tua morte. Ci sono tante teste di minchia: teste di minchia che sognano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello … quelle che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero … ma oggi signori e signore davanti a voi, in questa bara di mogano costosissima, c’è il più testa di minchia di tutti… uno che aveva sognato niente di meno di sconfiggere la mafia applicando la legge.”
Chiusero cinque bocche, ne aprirono cinquanta milioni.