Elezioni del 1983: il rampantismo craxiano vede la luce
di Pierre De Filippo-
La morte di Moro aveva definitivamente chiuso ogni possibile dialogo tra comunisti e democristiani. A Botteghe oscure, il compromesso storico non era stato molto gradito e Berlinguer si trovava a dover dare, per la prima volta nella storia comunista, delle spiegazioni.
L’ala più massimalista, quella di Pietro Ingrao, voleva tornare all’antico e non certo più a compromettersi coi borghesi. Al congresso dell’80 avevano imposto una clausola: mai più con lo scudo crociato.
La stessa clausola l’aveva imposta il congresso democristiano dello stesso anno, che aveva sostituito Zaccagnini con Forlani: mai più con i comunisti. Era il famoso preambolo.
Chi, chiaramente, beneficiava di questa doppia clausola era il Partito socialista e, in particolare, il suo giovane e rampante segretario, Bettino Craxi che, sostituendo Marx con Proudhon, aveva dato vita al nuovo vangelo socialista.
La fine degli anni Ottanta vide nuovi fenomeni emergere: la globalizzazione, che iniziava a mostrare tutta la sua forza distruttiva e costruttiva allo stesso tempo; la necessità di controllare i bilanci, la loro esplosione e l’inflazione attraverso il neoliberismo; il processo di integrazione europea che proseguiva speditamente con l’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo del 1979.
Ma tra la gente imperava il «riflusso», un sentimento di repulsione verso ciò che Pietro Scoppola definiva la Repubblica dei partiti, che aveva imbalsamato per anni l’Italia.
Craxi era stato astuto perché, più e meglio di altri, aveva interpretato questo sentimento, proponendo di sostituirlo con la “Milano da bere”, col rampantismo, con tutto ciò che hanno rappresentato i famigerati anni Ottanta.
Aveva iniziato a parlare di riformare la Costituzione, di presidenzialismo (corsi e ricorsi storici, anche qui), di leaderismo.
Parole nuove.
E, soprattutto, aveva beneficiato del fatto che, grazie a Pertini che però non lo amava, a Palazzo Chigi, nel 1981, era finalmente andato un laico, il segretario del Partito repubblicano (ma più propriamente storico e giornalista) Giovanni Spadolini, spianandogli la strada.
Questa “prima volta” – accompagnata alla rinnovata incomunicabilità tra democristiani e comunisti – aveva aperto al ricatto craxiano, meglio definito potere di interdizione.
Pur con una differenza abissale in termini di voti, era riuscito a strappare ad una Dc in difficoltà, tra la morte di Moro e l’emersione della Loggia P2 di Licio Gelli, un accordo alla pari.
Le elezioni del 1983 dovevano quindi ratificare questo nuovo corso, tra lo scetticismo di Berlinguer e quello di De Mita.
L’Italia svoltava verso la modernità, verso la rapidità d’esecuzione e verso un personalismo che fino a quel momento non aveva mai conosciuto.
Craxi avrebbe incarnato il potere, personificandolo e adattandolo al suo carattere, al suo modo di vedere le cose.
Aveva teorizzato che la “vecchia volpe” – Andreotti – sarebbe finita in pellicceria. Non fu così, governarono insieme per anni e Montanelli, da arguto osservatore qual era, notò un particolare che ritenne di dover riportare sul suo giornale.
In una replica in Parlamento “per due volte Craxi chiese dell’acqua, per due volte Andreotti gli riempì il bicchiere e gliela porse. E lui bevve”. Aggiungeva Montanelli: “che Craxi sia uomo di grandi capacità e ambizioni lo si sapeva. Che sia anche un uomo di coraggio lo si è visto ieri”, bevendo l’acqua andreottiana.
Anche questo è stato il craxismo, anche questi sono stati gli anni Ottanta.
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