Epicedio per Elisabetta II e la crociera del 1992 che “privatizzò” l’Italia

A seguito dell’annuncio dato da Buckingham Palace della morte della regina del Regno Unito, Elisabetta II, dopo un regno durato ben 70 anni, la stampa italiana si è riempita di articoli di cordoglio. Molti hanno lodato lo stile, la sobrietà che hanno caratterizzato il modo di governare della sovrana. Molti sono quelli che, in un accorato amarcord, con una sorta di sottile nostalgia, hanno rievocato le cinque visite di stato, compiute nel nostro Paese da Elisabetta, durante il suo regno, a partire dal 1952. Il nostro Presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è spinto ad affermare : “Gli italiani piangono l’amata sovrana di un paese amico.”

Facciamo un passo indietro. Sarebbe utile andare a rileggersi un articolo di Paolo Delgado, apparso su IL DUBBIO, del 22 agosto 2018 ed avente il titolo seguente “Estate 1992: la crociera del Britannia, voluta da sua maestà, che privatizzò l’Italia

Articolo assai utile che ci ricorda quello che da sempre è stato l’atteggiamento della corona inglese nei confronti dell’Italia. Atteggiamento manifestatosi anche nella prima metà del secolo XIX, quando l’Inghilterra, contribuì alla caduta del Regno delle Due Sicilie, poiché i regnanti di quest’ultimo difendevano i propri interessi, contro quelli inglesi in Sicilia. Più di recente, nel corso del secolo passato quando, quella che durante il ventennio era chiamata da noi la perfida Albione, era nostra antagonista a causa delle sue mire nel bacino del Mediterraneo.

Ma torniamo all’estate del 1992, quando il 2 giugno di quell’anno ebbe inizio la crociera del panfilo reale lungo le nostre coste, voluta da sua maestà britannica, Elisabetta II. Sulla nave della regina era stata organizzata una conferenza a cui avrebbero partecipato banchieri e finanzieri inglesi, coloro cioè che, sull’onda del successo della dottrina del neoliberismo, operavano in campo finanziario con quelle che si definiscono transazioni immateriali, operazioni cioè speculative di quella finanza che, a partire da quei primi anni Novanta, ha acquisito un potere superiore a quello degli stati.

Nel 1992 il neoliberismo propugnato dall’allora primo ministro inglese Margareth Thatcher e dal presidente americano Ronald Reagan, aveva conquistato anche la nostra classe politica, senza distinzione alcuna tra destra e sinistra. Nel porto di Civitavecchia, da parte italiana, si imbarcarono sul panfilo per prendere parte alla conferenza tutti coloro che controllavano l’economia di stato del nostro paese. Vi era Carlo Azeglio Ciampi, presidente di Bankitalia ed il ministro democristiano Beniamino Andreatta, i due che erano stati gli artefici del divorzio tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro. Operazione che innescò la crescita abnorme del debito pubblico italiano. Infatti, dopo quella  separazione, i titoli del debito pubblico del nostro Paese che prima erano acquistati dai risparmiatori italiani ed il cui rendimento era fissato dal governo,  furono offerti agli investitori esteri, tra cui tutti i fondi speculativi mondiali e che, da quel momento, furono coloro che imponevano al nostro stato l’interesse da pagare per ripagare il debito. Interesse che ovviamente prese a crescere in modo tale che ripagare il debito è diventato oramai impossibile e  ha dissanguato le casse del nostro erario.

Ma a quella sciagurata crociera parteciparono anche tutti i vertici della migliori e più grandi aziende dello stato quali ENI, Enel, Comit, INA e di tutte le altre partecipate dallo stato.

Il primo relatore della conferenza fu quello che è oggi una nostra vecchia conoscenza, il direttore generale del Tesoro dell’epoca, un certo Mario Draghi. E ciò ci fa comprendere ciò che è avvenuto nel corso dei mesi del suo governo e forse anche il motivo per cui è stato chiamato a sostituire Giuseppe Conte a Palazzo Chigi.

Lo scopo della sua relazione era quello di dimostrare i vantaggi, per il nostro Paese, della privatizzazione delle sue aziende partecipate dallo Stato,  quelle aziende che avevano permesso all’Italia di risollevarsi dal baratro in cui la seconda guerra mondiale l’aveva precipitata e a diventare la settima potenza più industrializzata del mondo.

Quella di privatizzare era, tra l’altro, la condizione imposta dall’Europa per il nostro ingresso nella moneta unica. Trappola questa che ha infine portato al collasso della nostra economia, ed ha gettato le basi per il successo di quella tedesca, divenuta egemone in questa Unione, tagliata quasi su misura per questo.

Dunque il nostro Stato che, fino a quel momento aveva mantenuto il controllo delle migliori aziende nel campo delle ferrovie, degli aerei, delle autostrade, delle acque, dell’elettricità, del gas, della maggior parte del sistema bancario, della siderurgia, della meccanica, della chimica, del turismo e del settore alimentare, fu indotto a privarsi di tutti quegli assets che lo avevano portato ad occupare uno tra i primi posti nell’economia mondiale, svendendoli a privati. Molte aziende furono acquistate a prezzi di svendita da multinazionali straniere. In nessun settore fu più possibile per l’Italia creare aziende di dimensioni mondiali, mentre fu fatto credere agli italiani che la privatizzazione avrebbe reso quelle aziende più efficienti e competitive, ciò avrebbe dovuto portare alla loro crescita ed all’aumento dell’occupazione ed avrebbe avuto, per i consumatori, il vantaggio della riduzione di prezzi grazie alla concorrenza. Un nuovo miracolo economico insomma.

Invece i risultati di quella dissennata dottrina e della decisione, presa a bordo del panfilo di sua maestà britannica, sono, oggi, sotto gli occhi di tutti. L’Italia è divenuta pressoché un deserto dal punto di vista industriale, il nostro debito pubblico è schizzato dai 971 miliardi dell’epoca ai 2700 di oggi. Sono stati persi più di un milione di posti di lavoro ed in queste disastrate condizioni ci siamo trovati ad affrontare prima una pandemia ed oggi le conseguenze della dissennata guerra sulle cui cause gli americani hanno non poche responsabilità.

Quanto ai vantaggi per i consumatori, non si sono mai avverati, anzi abbiamo assistito a comportamenti profondamenti censurabili, come nel caso delle autostrade svendute ai Benetton che hanno lasciato il sistema autostradale privo di manutenzione,  causandone  il degrado, fino al tragico epilogo del crollo del ponte Morandi a Genova. Crollo che, ricordiamolo, ha provocato 41 vittime. Inoltre, a fronte della mancanza di investimenti, il costo dei pedaggi è cresciuto sempre di più, a differenza della Germania dove  le autostrade sono libere e si possono percorrere senza il pagamento di alcun pedaggio.

Insomma, quella decisione presa a bordo del panfilo di sua maestà Elisabetta II, è alla base delle miserevoli condizioni in cui oggi si trova il nostro Paese. Se, dopo aver rievocato quella crociera in Mediterraneo di quel panfilo, c’è ancora qualcuno tra gli italiani che non si rende conto della situazione, allora vuol dire che davvero siamo un popolo di imbelli. Del resto vi è a proposito un proverbio gallese che dice: “Meglio la carestia piuttosto che il mare mosso a Bangor, meglio piuttosto la peste che i reali inglesi.”

Qualcuno si augura che possa essere scritto un libro su ciò che Elisabetta,  amante del tè e della solidarietà di palazzo, ha perpetrato nei confronti dei suoi sudditi dell’Australia, del Canada, della Nuova Guinea, della Nuova Zelanda e di tutte le ex colonie britanniche.

 

Giuseppe Esposito

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