Uno Stato che è stato e non lo è più
di Giuseppe Esposito-
È ricominciato, in questi giorni torridi di agosto, il tormento di una nuova campagna elettorale. Come se non bastassero i fastidi dovuti al caldo, alla siccità, al costo crescente delle bollette dell’energia, all’inflazione tornata a livelli oramai dimenticati, siamo costretti ad assistere all’avvilente teatrino di una politica i cui attori non sono altro che sepolcri imbiancati, vili e spregevoli, alla disperata ricerca di una poltrona nel sistema del potere.
Esponenti di partiti, oramai tutti uguali e tutti privi di una visione del futuro, di una visione del paese da cui sono irrimediabilmente distaccati, si contendono i seggi del nostro Parlamento oramai quasi esautorato da un regime strisciante. Questa classe politica ha condotto, nel giro di un trentennio, il paese sull’orlo di un baratro senza fondo. Ed ancora quei guitti si agitano e vomitano le loro vane promesse, cento volte disattese. Il paese che era arrivato ad essere la settima potenza tra i paesi più industrializzati è ridotto in condizioni assai misere ed il panorama industriale è simile ad un deserto. Là dove sorgevano le fabbriche, solo rovine e capannoni abbandonati.
L’inizio di questo degrado lo si può fissare ad un’epoca precisa, l’inizio degli anni Novanta, quando, caduta l’Unione Sovietica il neoliberismo cominciò a diffondersi nel nostro mondo grazie a personaggi come Margareth Tatcher, Tony Blair e Ronald Reagan. Da quel momento la finanza cominciò a prendere possesso del mondo e ad acquisire un potere superiore a quello degli Stati. Un potere sovrannazionale che non conosce limiti e privo assolutamente di qualsiasi etica, che non sia quella del profitto.
Alcuni dei paesi occidentali, quale il nostro, sono stati completamente privati di ogni struttura industriale poiché si era deciso che la Cina, divenisse la fabbrica del mondo, grazie al bassissimo costo della mano d’opera ed all’assenza completa dei diritti dei lavoratori.
Per quanto riguarda l’Italia, per l’inizio del declino è possibile fissare una data precisa. Lo ricorda Rinaldo Gianola, in un articolo comparso sulla rivista Infosannio, nel numero del 7 luglio 2022, e avente come titolo: “La grande illusione delle privatizzazioni” . Tale data è quella del 10 luglio 1992. Nel pomeriggio di quella giornata afosa, si era tenuto un consiglio dei ministri al termine del quale, il presidente Giuliano Amato, propose di approvare un Decreto Legge, il n. 333, 1992, che trasformava gli enti pubblici in società per azioni.
I ministri presenti, forse distratti dall’afa, approvarono senza rendersi conto dell’impatto che quel decreto avrebbe avuto sull’economia del paese. Quella data è rimasta nella storia come quella del giorno in cui l’Italia si arrese ufficialmente alla sciagurata dottrina del neoliberismo.
Una sola voce si levò contro quella decisione e fu quella del Ministro del Tesoro, Piero Barucci, ex banchiere che così commentò: “Così abbiamo distrutto tutto quello che è stato fatto da Alberto Beneduce.”
Beneduce era stato tra i fon datori dell’IRI ed il suo primo presidente, dal 1933. Egli era fautore che uno stato debba avocare a sé il ruolo di indirizzo dello sviluppo industriale, senza essere necessariamente coinvolto nella gestione delle aziende. Fu quella dell’IRI una formula vincente che permise all’Italia di uscire dal baratro seguito alla grande depressione del 1929 e di diventare, nel secondo dopoguerra, il settimo paese tra quelli maggiormente industrializzati al mondo.
A proposito di quello sciagurato decreto voluto da Giuliano Amato, Barucci aggiungeva: “Privatizzare è come entrare in guerra.”
In caso di difficoltà o di emergenze, come quelle che da alcuni decenni funestano la nostra esistenza, solo lo Stato può farsi carico degli interventi necessari a condurre in salvo il paese. E lo Stato, adeguandosi alle mutate condizioni dell’economia può, in taluni casi farsi anche imprenditore. Cosa che è avvenuta, dopo la seconda guerra mondiale, in Italia.
Nei frangenti più difficili, del tipo di quelli che siamo oggi costretti a vivere, il lavoro umano e la proprietà pubblica delle fonti di produzione della ricchezza costituiscono un binomio vincente al fine di salvaguardare l’interesse generale della nazione.
Nella nostra Costituzione è scritto che la proprietà è sia pubblica che privata, ma quella relativa ai servizi pubblici essenziali e delle fonti di energia occorre che sia in mani pubbliche, onde evitare l’ingordigia dei privati e della speculazione che agisce solo in nome del proprio particolare interesse.
Altro motivo per cui quella proprietà deve essere pubblica è legata al fatto che nel documento fondamentale della nostra nazione vi è il concetto che ogni cittadino è tenuto, in base alle proprie scelte ed alle proprie capacità a svolgere una attività che concorra al progresso materiale e spirituale della nazione. Inoltre nello svolgimento del proprio lavoro egli deve essere retribuito in maniera adeguata alla quantità e qualità del suo impegno, ma sempre nella misura che gli permetta di garantire a sé ed alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Su tutto lo Stato deve mettere in atto tutti quei controlli che assicurino che le attività siano indirizzate a fini sociali.
Insomma i nostri padri costituenti disegnarono un quadro al centro del quale è posto il lavoro come elemento basilare della convivenza dell’insieme dei cittadini.
Tale visione è stata, a partire da una trentina d’anni, continuamente tradita ed abbandonata.
Le privatizzazioni spinte dal bieco interesse del liberismo senza freni, hanno fatto saltare la mirabile costruzione a fondamento della nostra nazione.
I sevizi pubblici, anche quelli essenziali o strategici sono stati posti nelle mani di speculatori senza scrupoli i quali hanno perseguito la massimizzazione dei profitti a danno della qualità dei servizi stessi. Vedasi per tutti l’esempio del ponte Morandi di Genova e la vicenda dei Benetton cui era stata svenduta la proprietà delle autostrade costruite col denaro pubblico. Una follia che non ammette scusanti.
Pe ribaltare questo stato di cose e tornare allo spirito della Costituzione occorrerebbe abrogare tutta la serie di leggi sciagurate che ci hanno condotto al miserevole stato dell’oggi, e spingere lo Stato a riassumere il ruolo previsto in Costituzione.
Mi rendo, tuttavia, conto che tale ipotesi è, oggi, null’altro che una pia aspirazione. Per poterla rendere concreta occorrerebbe una rivoluzione assai più radicale di quella francese del 1789: ne saremo mai capaci? Valde dubito!
