Si spara ancora sui cieli di Kiev

di Pierre De Filippo-

Nel 1947, Primo Levi pubblicava per la prima volta Se questo è un uomo. Ad oltre settant’anni di distanza, la retorica domanda condita con quel disprezzo di chi sa già la risposta rimane. L’Uomo, quello con la U maiuscola, non ha fatto certo passi avanti ed è rimasto quello che era: egoista, autoreferenziale e, soprattutto, autodistruttivo. Aveva ragione Einstein: i topi non avrebbero mai costruito una trappola per topi, noi abbiamo creato la bomba atomica.

È questo l’Uomo? Quello che colpisce gli ospedali? come è accaduto ai reparti di maternità e pediatria a Mariupol, città che da giorni non riesce ad uscire dalla morsa della guerra e alla quale i russi non consentono nemmeno di far sgomberare i civili.

“Ci sono poche cose più ignobili che prendere di mira i vulnerabili e gli indifesi”, ha detto il Premier britannico Boris Johnson. E non si può che condividere le sue parole.

Questa guerra sta lasciando dietro delle scorie – fatte di cattiveria, cinismo, mancato senso del limite – che certamente ci porteremo dietro per lungo tempo. Altro che uscirne migliori, ogni volta ne usciamo peggio.

Ha ragione Zelensky quando dice che “la minaccia di una guerra nucleare è un bluff”. Perché i russi, se mai avessero voluto compromettere l’esistenza di questo pianeta, l’avrebbero fatto da quel dì, invece questo continuo fare riferimento alle centrali nucleari – quella di Chernobyl è definitivamente nelle mani di Mosca – non fa altro che alimentare quel senso profondissimo di angoscia che ciascun ucraino, ciascun europeo, ciascuno occidentale, ogni persona di buon senso dentro di sé cova.

È terrorismo psicologico. E distrugge più delle bombe.

Sta facendo il giro del web l’immagine di un bambino appena arrivato in Polonia che, a fatica, trascina la sua valigia e segue la sua mamma. Piange. Piange più per rabbia che per paura, si capisce. Piange perché ha dovuto lasciare la sua casa, le sue cose, le sue abitudini, i suoi giocattoli. Piange perché non è tranquillo.

A noi manca, a noi che le bombe le sentiamo esplodere solo nelle immagini dei notiziari o su internet, la materialità dell’esperienza. Per forza di cose. Siamo solidali, sì; siamo compassionevoli, sì; ma distanti, convinti che a noi, che una bomba possa esploderci sulla testa o su un nostro ospedale, non possa mai capitare.

Invece un bambino che piange è anche la nostra quotidianità, è l’elemento che lega noi a loro, è quel pezzo di puzzle che compone il mosaico: siamo tutti in guerra perché la guerra mette a rischio il futuro. Di tutti.

Kharkiv infiamma, infiamma anche Mariupol, “Zaporizzia” e Odessa. Infiamma Kiev che strenuamente resiste. Ma infiamma anche Mosca, dove ogni giorno si contano arresti su arresti. È la protesta della gente perbene, quella che non si piega ai diktat e che non ha, da questa guerra, proprio nulla da guadagnare. Anche quelle madri temono di vedere i loro figli sui monti del Guadarrama, altroché. Anche loro pagherebbero per vedere interrotto questo spargimento di sangue.

I negoziati procedono ma paiono infruttuosi perché rigide sono le posizioni in campo. Nessuno vuole cedere all’altro e questo, ormai, si è capito. Rimangono perplessità sul fine ultimo di Vladimir lo zar. Finirà come Hitler, con un buco in fronte in un bunker? O continuerà la sua imperialistica espansione come Napoleone?

Quel che è certo è che l’inverno arriverà pure per lui, prima o poi.

Pierre De Filippo Pierre De Filippo

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