Italia, Campioni d’Europa: “Esultiamo con Mattarella”
-di Pierre De Filippo
Sembravano lontani, lontanissimi i tempi in cui un pacato ma emozionato Nando Martellini raccontava a milioni di italiani festanti che “esultiamo con Pertini”, il Presidente più amato perché quello più italiano di tutti – impulsivo, sfacciato, chiacchierone, poco attento al protocollo – che aveva appena finito di urlare, accanto al Re Juan Carlos e al Cancelliere tedesco Schmidt, “ormai non ci prendono più, ormai non ci prendono più” al 3-0 di Spillo Altobelli.
Era l’11 luglio del 1982. Trentanove anni fa.
Ieri, l’11 luglio 2021, abbiamo esultato con Mattarella – Sergio il silenzioso – che ha rappresentato l’intera nazione allargando quelle braccia e urlando “goal” con un misto di sorpresa e di sollievo.
Siamo Campioni d’Europa, siamo Campioni d’Europa per la seconda volta nella nostra storia.
Da Giacinto Facchetti, che alzò la coppa a Roma nel 1968 – un annetto tranquillo – a Giorgio Chiellini, che l’ha fatto ieri a Webley – lo stadio degli stadi – dinanzi alla famiglia reale e a tutta la tifoseria inglese.
Sergio e Sandro, due uomini agli antipodi che meglio non potrebbero spiegare il perché il ruolo del Presidente della Repubblica nella politica italiana venga definito a fisarmonica.
Perché tanto c’è di scritto, anche costituzionalmente, tanto altro lo impone il protocollo, altro ancora è figlio di anni e anni di consuetudini – che in diritto hanno sempre il loro peso – ma la verità è che prima fonte di disciplina è il carattere dell’inquilino del Quirinale, le sue passioni, le sue attitudini, la sua verve.
In principio, fu Einaudi, cuneese algido nel pubblico ma molto affabile nel privato. Fu Alcide De Gasperi a sceglierlo, dopo averlo voluto come ministro del Tesoro in uno dei suoi governi. Da buon liberale, Einaudi interpretò il suo ruolo in maniera minimalista, seguendo il protocollo anche perché De Gasperi era uno e trino e rappresentava l’Italia in ogni sede.
Diversa gestione la impresse Giovanni Gronchi, politico di razza e interventista problematico: portò avanti una sua politica estera, sue relazioni diplomatiche, attribuì incarichi in piena autonomia. La fisarmonica, con lui, si espanse per la prima volta.
Nel breve mandato di Antonio Segni tornò a ricomprimersi: gli anni erano infuocati, la nostra politica aveva appena partorito le convergenze parallele quando qualcuno udì, o raccontò di aver udito, un tintinnar di sciabole – il cosiddetto Piano Solo – e a Segni venne un coccolone.
Saragat era Saragat: torinese, austero, dall’eloquio sibillino e dai modi ottocenteschi; convinto socialdemocratico, soleva dire – riferendosi ai cugini socialisti – “i democratici con i democratici, i comunisti con i comunisti”, profetizzando quel pentapartito che sarebbe sorto negli anni ’80.
Giovanni Leone, di converso, era un napoletano verace, scaramantico al massimo e con una moglie bellissima e influente. Si trovò a gestire – suo malgrado, verrebbe da dire – gli anni Settanta con tutto il loro carico: gli anni di piombo, la strategia della tensione, il compromesso storico, fino al rapimento e alla morte di Aldo Moro.
Gli successe proprio Pertini, che impresse al mandato le sue stimmate: presente in ogni dove – dalla finale di Madrid al terremoto in Irpinia – con la pipa ed il berretto si caricò sulle spalle un’intera nazione che, già in quel periodo, non sapeva a che santo votarsi.
Chissà se, dovunque si trovi, stia cercando ancora i soldi del Belice…
Poi, fu il turno di Cossiga, sardo sardo, testardo e polemico. Per i primi cinque anni di mandato, la fisarmonica rimase compressa, silente, tranquilla; negli ultimi due si trasformò nell’ormai celeberrimo picconatore, pronto ad intervenire – anche a gamba tesa – per mettere in evidenza inefficienze e ambiguità del nostro sistema politico.
Con la fine del suo mandato, nel 1992, si chiudeva un’epoca, quella della Prima Repubblica e nulla sarebbe stato più come prima.
A partire dall’elezione del suo successore: ci vollero sedici scrutini per eleggere Oscar Luigi Scalfaro e la spinta decisiva la diede un evento tragico, la morte sulla via di Capaci del giudice Falcone.
Scalfaro fu silentemente ingerente, non come Gronchi o Pertini ma in maniera più sottile, sotterranea. Promise a Berlusconi che si sarebbe tornati a votare e non lo fece, incaricò Dini e poi lo sponsorizzò come ministro del Tesoro nel primo governo Prodi. Accondiscese al “tradimento” della Lega.
Un manovratore dalla “r” moscia.
Nel 1999 fu il turno di Carlo Azeglio Ciampi, che mise d’accordo Berlusconi e D’Alema e che godeva di una rinomata fama in Italia e all’estero. La tranquillità politica di quegli anni gli permise di occuparsi di ciò che più gli interessava, rinfocolare l’ideale nazionale, quel senso di unità che spesso tendiamo a perdere.
Giorgio Napolitano, primo ex comunista a sedersi sullo scranno più alto della nostra politica, ha interpretato il suo ruolo all’antica e perciò non sempre è stato capito. Eravamo abituati diversamente e ad un presidente che ha inteso fare politica abbiamo attribuito l’etichetta di Re Giorgio, come se il Capo dello Stato fosse un passacarte.
Vecchio, stanco e un po’ demoralizzato ha accettato il secondo mandato, un unicum, per salvare la faccia alla sua nazione, sempre in crisi di credibilità. Ha chiamato a raccolta le forze, le ha spronate con un discorso di insediamento durissimo ma che è servito a poco.
A lavare la testa all’asinello…
E poi Sergio, il silenzioso, che alza le mani al cielo al gol di Bonucci.
Un galantuomo che ha saputo fare ottimamente il suo lavoro. Speriamo che il successore sia alla sua altezza.
