La banalità del male: alle origini del conflitto israelo-palestinese
-di Pierre De Filippo-
Ancora morte e distruzione in quel disgraziato pezzo di terra di confine tra Israele e la Palestina, i cui civili continuano a cadere indiscriminatamente come foglie. Della triste cronaca si è già parlato, dei motivi – alcuni reali, altri pretestuosi – a causa dei quali si è giunti a questo punto di rottura; sulla storia, lunghissima ed intricatissima, aleggia sempre un velo di intima incomprensione. Perché devono odiarsi così? Perché, in tanti anni, non sono riusciti a trovare una soluzione?
È, dunque, necessario ricapitolare i tanti capitoli del tragicamente famigerato conflitto israelo-palestinese.
In principio fu la Dichiarazione Balfour, datata novembre 1917 e che prendeva il nome dal ministro degli Esteri britannico che, con questa nota, legittimava il rientro degli Ebrei in quella ch’essi ritenevano la Terra Santa, dopo gli anni della Diaspora; ciò, si precisava, senza ledere i diritti delle comunità non ebraiche – oltre il 90% di chi abitava quelle aree – della Palestina.
Ciò segnò il lento riequilibrio demografico nella zona: il progressivo arrivo di ebrei da tutto il mondo portò rapidamente a problemi di convivenza, aggravate dal fatto che l’area fosse già abitata da altri, i palestinesi, e che, soprattutto, la diversità religiosa concorreva a inasprire i rapporti e a rendere il dialogo meno semplice.
Un primo punto di rottura lo si ebbe tra il 1947 ed il 1949: gli israeliani spinsero sempre di più la popolazione palestinese verso l’entroterra – la Cisgiordania, essenzialmente – inimicandosi i pivot politici dell’area, Egitto in primis, che reagirono con vigore a questa a loro dire indebita appropriazione, di suolo e di abitazioni.
La Guerra arabo-israeliana del 1948 sancì la vittoria di Israele, che il 14 maggio 1948 dichiarava la propria indipendenza e la sua nascita ufficiale, e la sconfitta del fronte arabo. Da quel momento, Israele sarebbe stato visto come l’intruso, l’invasore, il prepotente oppressore.
È più semplice comprendere, ora, come ogni elemento di attrito, di incomprensione e di astio rappresentava, per una parte e per l’altra, il movente per ribadire le proprie posizioni: Israele necessitava di vedere legittimata il proprio ruolo internazionale, indispensabile per uno Stato piccolo e di fresca nascita, ed il fronte arabo – compattatosi grazie alla presenza di un nemico comune – rivendicava il proprio nazionalismo, che era instrumentum regni dei proprio governanti.
La crisi di Suez ne è un esempio: per evitare che l’Egitto estromettesse Francia e Inghilterra dallo strategico snodo di Suez, i Paesi europei spinsero Israele ad invadere il territorio egiziano fino proprio allo Stretto; di lì in poi, i due Paesi europei si sarebbero posti come mediatori, barattando la pace con l’interruzione del processo di nazionalizzazione del canale che l’egiziano Nasser aveva iniziato. Solo l’infastidito intervento di USA e URSS, che rimbrottarono vigorosamente Francia e Inghilterra, consentì alla situazione di non degenerare.
Alla Guerra dei Sei giorni del 1967 si arrivò, invece, a causa di una pluralità di fattori e di incomprensioni reciproche: dopo il 1956, Israele aveva accettato di restituire i territori conquistati all’Egitto ma non aveva smesso di prepararsi militarmente in caso di necessità, la quale pareva sempre più evidente dopo che la Palestina aveva rincominciato ad organizzarsi politicamente: nel 1964 era nata l’OLP – l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina – che poteva contare su un braccio armato, pronto alla guerriglia, al-Fath.
Gli arabi reagirono cercando di isolare Israele, precludendogli, in particolare, l’accesso alle acque dolci dei fiumi, Giordano in primis.
Una provocazione che non poteva non avere conseguenze: in soli sei giorni – dal 5 al 10 giugno – Israele mette in atto una tale conquista di territori che lo porteranno a quadruplicare i suoi possedimenti, dalla penisola del Sinai, a confine con l’Egitto, alle alture del Golan, vicino la Siria, passando evidentemente dalla Striscia di Gaza e tutta la Cisgiordania, compresa Gerusalemme, il cui valore simbolico era chiaramente elevatissimo.
Questa bruciante sconfitta del fronte arabo non aveva fatto altro che inasprire ancor di più il senso di frustrazione e di impotenza verso il nemico israeliano ed aveva accresciuto grandemente il nazionalismo d’area, il panarabismo.
Fu questa la motivazione principale – esprimere una politica di potenza – che portò Sadat, succeduto a Nasser, ad attaccare Israele nel 1973, in occasione della festa religiosa ebraica dello Yom Kippur, sfruttando l’effetto sorpresa. Gli israeliani effettivamente faticarono ad organizzarsi e, nonostante l’appoggio statunitense, ne uscirono sostanzialmente sconfitti, perdendo la strategica penisola del Sinai – che comprendeva il lato est del Canale di Suez – in favore dell’avversario egiziano. In realtà, questo conflitto ebbe una conseguenza ben più importanza rispetto a ciò di cui stiamo parlando: sia la Striscia di Gaza, sia la Cisgiordania rimasero in possesso dello Stato d’Israele, il quale, pur sconfitto, legittimava in questo modo la “proprietà” di quei territori.
Gli anni successivi furono caratterizzati da ondivaghe direzioni: gli Accordi di Camp David – fortemente voluti da Carter, che aveva riunito autorità israeliane e egiziane – iniziarono un percorso di stabilizzazione, individuando la necessità per i palestinesi di autogovernarsi, ma furono più un successo simbolico che sostanziale, mentre la crescente frustrazione palestinese portò, nella seconda metà degli anni ’80, all’Intifada, una rivolta multiforme nei confronti di Israele, che andava dalla disobbedienza civile al boicottaggio economico, tracimando quasi mai nella violenza.
Un primo momento di svolta lo si ebbe, nel 1993, con gli Accordi di Oslo: per la prima volta alla teoria faceva seguito la pratica e, dopo averlo concordato, nasceva l’Autorità Nazionale Palestinese, col compito di governare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.
Evidentemente non un accordo definitivo e soddisfacente, e le vicende di questi giorni lo testimoniano.
Vi è un’unica, a mio parere, via d’uscita: due Stati per due popoli; la prima volta che questo principio venne ufficialmente sancito era il 1947 e la Risoluzione 191 II dell’ONU lo diceva a chiare lettere (così come molte altre dopo di questa).
Perché, allora, quest’obiettivo pare ancora così lontano? Perché la cittadinanza, per usare un’espressione tutta italiana, non è pronta? Pare di no. Sondaggi indipendenti testimoniano che sia gli israeliani che i palestinesi sarebbero pronti a riconoscersi reciprocamente.
Perché gli estremismi prevalgono ancora: quelli egiziani che uccisero Sadat, quelli israeliani che uccisero Rabin, quelli più oscuri che, forse, ebbero un ruolo nell’oscura morte di Arafat.
Motivi politici, economici, storici, culturali ed ideologici sono alla base del conflitto israelo-palestinese. La ragione ed il torto, in questo caso, sono così sfuggenti, sono così intersecati che non è possibile dare dei giudizi netti, di innocenza e di colpevolezza.
Conviene fare proprie le parole di Emanuele Fiano, parlamentare PD e di famiglia ebraica, che qualche giorno fa in Parlamento ha detto: –chi vorrebbe cancellare Israele dalla cartina geografica del Medio Oriente commette un abominio, così come chi vorrebbe non parlare del diritto del popolo palestinese ad avere uno Stato. C’è una sola possibilità per la pace: difendere i due diritti insieme, due stati per due popoli. Speriamo che un giorno prevalgano la ragione e il diritto.-
Lo speriamo davvero.
“By @helena_mascioli ‘Il mio ricordo va anche alle vittime dell’Olocausto israeliano ai danni dei Palestinesi. #freepalestine’ via @PhotoRepost_app” by Pedro Fanega is licensed under CC BY 2.0
