“Ho osato”. Rudolf Hess e la follia nazista

-di Michele Bartolo-

PREMESSA

Avevo quattordici anni quando è morto Rudolf Hess. Sin da ragazzino mi ha affascinato il mistero che ha accompagnato la sua esistenza e la sua morte. Ho deciso di scrivere una sua breve biografia, ove lui stesso si racconta. Nello scritto ci sono riferimenti storici e fatti realmente accaduti. Ma c’è anche il desiderio di rendere dignitoso e salvifico il tormento di un uomo che è stato tra i protagonisti di un periodo ignobile e turpe della nostra storia recente. Probabilmente è solo fantasia, ma ho immaginato che, dietro a quei misteri,  si celasse veramente il tentativo di evitare ciò che è stato ed il rimorso per ciò che invece è accaduto, sino a far emergere la volontà di  riscatto dell’individuo. Thomas Mann diceva: Nessun uomo è un’isola. Ecco perché voglio credere e non solo immaginare che a riscattarsi non sia solo un uomo, ma l’intera umanità a cui appartiene.

HO OSATO”. Il mio nome è Rudolf Hess. I miei nemici mi bollarono come un nazista, un ufficiale delle SS, un politico criminale, un cinico calcolatore, i  miei amici mi descrissero come persona di scarsa intelligenza, poca propensione al potere e, infine, come un povero pazzo. Io fui solo un uomo che ha sperato, ha creduto, ha commesso degli errori e ha pagato. L’unico a sperare tra i miei amici, l’unico a pagare al cospetto dei miei nemici. Vi racconto brevemente la mia storia. Da giovanissimo partecipai, come volontario, alla prima guerra mondiale, arruolato nel reggimento List, uno dei più aggressivi e tenaci di tutto il conflitto. Fu lì che conobbi un caporale di origine austriaca, Adolf Hitler e, qualche anno più tardi, alla fine della guerra, questi mi convinse ad entrare in politica e ad abbandonare l’università, dove studiavo storia ed economia e stavo per laurearmi in filosofia.

Ero giovane, ero stato un combattente, credevo nella mia Patria e,  proprio in quegli anni, seguivo un professore di geopolitica, che mi fece appassionare al concetto di “spazio vitale”. In quel momento storico, con la Germania piegata dal primo conflitto, negli anni della instabilità politica ed economica della Repubblica di Weimar,  vagheggiai la ripresa sociale, economica e culturale del mio Paese, coltivando la speranza di un mondo migliore. Ritenni di poter realizzare quel sogno seguendo le idee di Adolf Hitler ed il suo progetto di rivoluzione nazionalsocialista dei lavoratori.

Partecipai, così, al Putsch di Monaco nel 1923 ma, dopo il fallimento di quella rivolta, inizialmente mi rifugiai in Austria, salvo ritornare in Germania alla notizia che Hitler era stato arrestato. Non volli abbandonare ciò in cui credevo, non volli lasciare solo un amico e così mi feci incarcerare con lui e lo aiutai a scrivere il Mein Kampf (La mia battaglia). Quello forse fu il momento in cui fui più apprezzato da Hitler e più osannato dai miei amici nazisti. Divenni uno dei più stretti collaboratori del futuro Fuhrer, lo seguii nella sua ascesa ai vertici dello Stato, tanto da poter tranquillamente diventare il suo successore alla guida del partito.

Nel 1933, infatti, divenni il suo vice, godendo della sua stima e della sua fiducia incondizionata. Ebbi tutto il potere che avrei  potuto esercitare, sia all’interno del partito che nel governo, da poco costituito, ma a me non interessava il potere per il potere e iniziai ad allontanarmi dai miei amici, quando capii che i loro progetti di conquista erano connotati da caratteri di ferocia e spietatezza, quando compresi che la speranza di un tempo si era trasformata in brama di potere, in competizione senza scrupoli, in repressione di ogni forma di libertà e di autonomia.

Tornai ad essere un uomo normale, ma non un uomo di apparato, mai lo fui. Ben presto venni escluso dalle riunioni di partito,  non partecipai alle barbare decisioni sullo sterminio delle SA nella Notte dei lunghi coltelli e sulle persecuzioni antisemite nella Notte dei cristalli. Ma, soprattutto, non approvai l’entrata in guerra della Germania, con tutte le nefaste conseguenze che poi ne derivarono per la mia Nazione e per il mio popolo. Ecco perché i miei amici nazisti iniziarono ad isolarmi, sino a farmi apparire come un malato, anzi, come ho detto prima, come un povero pazzo.

Fu così che il 10  maggio del 1941 decollai da Augusta alla volta della Scozia per raggiungere il castello del duca di Hamilton, in quel momento più moderato ed aperto al dialogo con i tedeschi. Tentai, con il suo aiuto, di favorire la pace e fermare la guerra, ma non fui creduto: i nemici mi considerarono un emissario di Hitler, di cui non nutrivano alcuna fiducia; gli amici fecero presto a liquidare la mia iniziativa come una utopia, partorita dalla mente di un folle.

Folle io? Forse si, profondamente turbato, come fui, dagli orrori della guerra, incapace di essere ascoltato dai miei compagni di un tempo,  chiusi nel loro ambizioso e cupo sogno di gloria. Ma, al tempo stesso, ancora troppo nazista per riscuotere credito dai miei nemici, che mi videro come un uomo in crisi, rappresentante di un dittatore senza alcuna credibilità. Folle per gli uni, folle per gli altri, folle anche per me stesso, fu così che, dopo essermi paracadutato dal mio velivolo, fui consegnato agli inglesi ed internato dall’esercito britannico sino alla fine della guerra.

Sognai da giovane, crebbi da adulto, cercai la pace da politico e, alla fine, forse unico tra i miei compagni, pagai un prezzo altissimo, pur non avendo alcuna responsabilità nella ideazione dei campi di concentramento e nella pianificazione della soluzione finale della questione ebraica. Dopo la prigionia inglese, infatti, fui condannato all’ergastolo nel processo di Norimberga del 1946, capro espiatorio dei crimini del regime, punizione durissima e severa rispetto ad altri esponenti politici e militari del Terzo Reich. Fui rinchiuso nel carcere di Spandau, a Berlino Ovest, ove rimasi per tutta la  restante parte della mia vita, unico detenuto dopo la liberazione di tutti gli altri nazisti.

Il 17 agosto 1987, all’età di 93 anni, ebbi un ultimo sconvolgente gesto di cosciente follia: mi suicidai proprio nel giorno in cui, settanta anni prima, iniziò il mio gioioso e giovanile impegno, consumato in simbiosi fraterna  con il mio compagno della prima ora, Adolf Hitler, guida suprema del grande Reich, destinato a dominare il mondo intero ma condannato dalla Storia al definitivo oblio, che oggi, anche io, disperatamente anelo.

Sulla mia lapide, sotto il mio nome, sopravvivano due sole parole: “Ho osato”.

Rudolf Hess en prisión, el 24 de noviembre de 1945″ by Alfredo Grados is marked under CC PDM 1.0. To view the terms, visit https://creativecommons.org/publicdomain/mark/1.0/

 

Michele Bartolo

Avvocato civilista dall'anno 2000, con patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori dal 2013, ha svolto anche incarichi di curatore fallimentare, custode giudiziario, difensore di curatele e di società a partecipazione pubblica. Interessato al cinema, al teatro ed alla politica, è appassionato di viaggi e fotografia. Ama guardare il mondo con la lente dell'ironia perché, come diceva Chaplin, la vita è una commedia per quelli che pensano.

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