L’improvvisa svolta del temporeggiatore: Zingaretti si dimette

-di Pierre De Filippo-

Che Nicola Zingaretti non sia l’uomo del tempismo lo abbiamo sempre saputo: ha detto categoricamente no – manco fosse De Gaulle che vietava agli inglesi l’ingresso nella CEE – ad un governo coi 5S al grido “li ho battuti due volte e lo farò ancora” e s’è ritrovato a doverlo fare, eterodiretto dalle decisioni spiazzanti di Matteo Renzi; ha detto categoricamente si ad un Conte ter ed è stato costretto a bere l’amaro calice del fallimento dell’esplorazione e la nascita del governo Draghi, al quale pure partecipa in maggioranza.

Ora, ha addirittura deciso di annunciare le sue dimissioni – stupefacenti ed imprevedibili – proprio nella settimana di Sanremo, quasi a voler passare sotto silenzio.

E dire che c’era parso un esperto di tv, o comunque un fan sfegatato di Barbara D’Urso, alla quale non aveva mancato di esprimere la propria vicinanza dopo la chiusura del programma, che l’avevano fatta assurgere a madre nobile del partito, insieme a Rosa Luxemburg e Nilde Iotti.

Andiamo con ordine: subito dopo le 16, Zingaretti pubblica un post su facebook in cui dichiara “mi vergogno che nel PD, partito di cui sono segretario, si parli solo di poltrone e di primarie quando in Italia sta esplodendo la terza ondata di Covid…” e visto che “lo stillicidio non finisce […] nelle prossime ore scriverò alla Presidente del partito per dimettermi formalmente”.

Un messaggio chiaro ed inequivocabile. Assertivo.

Il 13 e 14 marzo si terrà l’Assemblea Nazionale del partito, che dovrà ratificare le dimissioni del segretario e organizzare le procedure per l’individuazione del successore.

Ma quali sono stati i motivi che hanno portato il fratello del Commissario più famoso d’Italia alle dimissioni? Due quelli preponderanti: la questione di genere interna al partito, che soggiace ad una più complessa di spartizione dei ruoli di comando (le poltrone alle quale faceva riferimento il segretario nel post) e l’alleanza col Movimento 5 Stelle.

Il primo tema era stato evidenziato subito dopo la nomina dei ministri dell’Esecutivo Draghi: tre uomini e nessuna donna; così, un po’ goffamente, i posti del sottogoverno erano stati colmati da quasi tutte donne, con buona pace delle “farisaiche quote rosa”, come le aveva definite Draghi.

In realtà, la cenere sotto la brace presupponeva ben altro: correnti interne al partito si chiedevano, ad esempio, perché l’ex vicesegretaria De Micheli s’era dimessa quando era entrata a far parte del Conte bis, mentre Orlando – che del segretario è il vicario – non lo avesse ancora fatto nonostante sieda sulla poltrona del dicastero del Lavoro.

È proprio in queste dinamiche che il Partito Democratico – l’unico, vero partito organizzato “novecentescamente” in Italia – risente maggiormente delle sue strutture barocche: è organizzato, come accadeva a suo tempo, in correnti. Al governo sono presenti le maggiori tre: c’è DEMS (Democrazia, Europa, Società) che fa capo ad Andrea Orlando; c’è AreaDem, più tendente al socialismo e capitanata da Dario Franceschini; e c’è Base Riformista, legata ai nomi di Lorenzo Guerini – al ministero della Difesa – e Luca Lotti (la corrente, per intenderci, più vicina a Matteo Renzi).

Proprio Base Riformista era la componente che, più di altre, aveva mal digerito l’alleanza organica col Movimento 5 Stelle che Nicola Zingaretti, spinto dal suo padre politico Goffredo Bettini, aveva incoraggiato. Rappresentando l’ala destra, avrebbe voluto che il partito si aprisse al centro liberale e riformista e non al populismo grillino. Certo è che Nicola è parso eccessivamente ripiegato sulla figura di Giuseppe Conte, definito un “punto di riferimento fortissimo di tutte le forze progressiste” e sul Movimento 5 Stelle, per il quale si parla di un possibile ingresso in seno alla Giunta Regionale laziale che vede Zingaretti come presidente.

Forse un po’ troppo per un partito che rivendica da sempre la sua identità.

Ma non sono state solo le correnti a far vacillare la posizione di Zingaretti e poi la sua pazienza; c’ha pensato anche una nutrita schiera di amministratori locali: da Stefano Bonaccini – che ha definito “ragionevole” la posizione di Salvini circa le aperture di bar e pub – al partito dei sindaci (De Caro, Nardella, Gori) moderato e orientato “a destra”.

Chiaramente, sui social la posizione di tutti i maggiorenti del partito è stata la più classica: tutti coesi col segretario, la cui funzione ed il cui operato sono stati e sono essenziali.

Giuseppe Conte si è subito esposto – non è chiaro se parlando per il Movimento o a titolo personale, anche qui “work in progress” – definendo Zingaretti un interlocutore “solido e leale” e che le sue dimissioni “non mi lasciano indifferente”, mentre Giorgia Meloni ha già lanciato la volata verso le amministrative a Roma dell’autunno e evidenziando le criticità dell’operato del governatore, quasi augurandosi che estenda le dimissioni anche rispetto allo scranno in regione.

Un commento conclusivo: il Partito Democratico, un po’ come il Conte Ugolino, tende ad ingurgitare famelicamente tutti i suoi figli, tutti i suoi segretari.

Walter Veltroni ormai fai il giornalista, l’uomo della tv; Bersani ha lasciato quei lidi per passare a LEU, così come l’ex sindacalista Guglielmo Epifani. Di Matteo Renzi non dobbiamo dire nulla, perché già troppe cose si sanno e sono state già dette mentre Maurizio Martina è approdato, di recente, alla FAO in qualità di vicedirettore.

Rimane, unico sopravvissuto, uomo delle mille stagioni, più affascinante dietro la folta barba, Dario Franceschini. Sarà lui a tirare la volata a Largo Nazareno?

Presto per dirlo anche se sembra improbabile. Noi siamo qui, staremo a vedere.

 

 

“Nicola Zingaretti, Federica Mogherini” by Party of European Socialists is licensed under CC BY-NC-SA 2.0

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