Vienna : Concerto di Capodanno, quella marcia che sa di sconfitta
-di Giuseppe Esposito-
È ormai una tradizione quella del NeujahrsKonzert dalla sala dorata del Musikverein di Vienna. Ossia del Concerto per il nuovo anno eseguito dall’Orchestra Filarmonica di Vienna. L’idea del concerto di capodanno venne, nel 1939 al maestro Clemens Krauss, direttore della Filarmonica viennese.
Sono dunque passati ottant’anni da quella prima volta. Ed in quell’occasione l’Austria si trovò ad affrontare uno degli eventi più tragici della sua storia. Era infatti quel 1939 l’anno della cosiddetta Anschluss, ossia dell’annessione dell’Austria alla Germania nazista, voluta da Adolf Hitler. Quando il concerto fu eseguito per la prima volta era, inoltre, già scoppiata la seconda guerra mondiale a seguito dell’invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche. Oggi sembra quasi un’ironia della sorte che un così importante anniversario cada in un anno così travagliato, col mondo piegato dalla diffusione del Coronavirus.
Ora di certo la tragedia immane del secondo conflitto mondiale è da attribuirsi alla follia dell’uomo, mentre la tragedia di oggi è apparentemente causata da un microscopico virus. Eppure se le conseguenze di questa pandemia saranno, alla fine, paragonabili ai danni prodotti da quelle guerre la colpa sarà anche stavolta della follia umana. Infatti il virus non ha fatto altro che mettere in evidenza quanto la sete di denaro ed una teoria folle e criminale, quale quella di un capitalismo senza regole che ha affidato al libero mercato il compito di regolare i rapporti umani e di rimodellare la società, siano responsabili dei danni immani che il mondo tutto sta subendo. Per il vantaggio di pochi in danno della maggioranza degli uomini è stato distrutto quanto di buono era stato costruito dopo la fine di quella sciagurata guerra. Si è proceduto a smantellare ogni forma di welfare, ad approfondire il divario tra i ricchi e i poveri, a creare una società basata sulla disuguaglianza. Ora la natura che pure è stata ferita dal nostro consumismo, sembra sia venuta a presentarci il conto. E questa credo sia l’ultima occasione per cambiare i nostri comportamenti.
Il segno della gravità del momento storico che attraversiamo lo si è potuto leggere anche in occasione del concerto viennese di quest’anno. La sala dorata della Musikverein era infatti completamente vuota. Nessun applauso ha scandito la fine di ogni brano musicale e nessuno ha battuto il tempo sulle note della Marcia di Radetzky.
Sul podio quest’anno vi era il nostro maestro Riccardo Muti ed il programma ha visto, per la prima volta, l’inserimento di brani di Carl Zeller e di Carl Millöker, tra i valzer e le polke della famiglia Strauss. Con questa direzione il maestro Muti conquista un primato, quello del maggior numero di presenze alla direzione dei Philarmoniker viennesi.
Un primato che si va ad aggiungere a quelli già numerosi nella carriera prestigiosa del nostro musicista. Ed è strano che questo primato sia spettato proprio ad un italiano, o meglio ancora ad un napoletano, quale, in più occasioni il maestro si è orgogliosamente proclamato.
Ricordo infatti quanto ebbe a dichiarare in occasione della consegna delle chiavi della città di Napoli da parte del sindaco De Magistris. Il maestro nel ringraziare per l’onorificenza disse:
“Accetto con profondo orgoglio le chiavi della città che mi ha dato i natali. La mia famiglia, in realtà viveva a Molfetta, poiché mi padre era un medico pugliese, ma mia madre era napoletana e ogni qual volta doveva partorire ella tornava a Napoli. Io sono nato nel 1941 ed anche allora in prossimità del parto, mia madre si mise in treno e dopo un viaggio di dodici, tredici ore giunse a Napoli. Partorì e dopo quattordici giorni tornò a casa a Molfetta. Quando io e miei fratelli, giunti all’età di quattordici , quindici anni le chiedemmo il perché si sottoponesse ogni volta a quel grande sforzo, la risposta fu: – Vedete voi crescerete e andrete in giro per il mondo e quando, a New York o a Tokio qualcuno vi chiederà da dove venite, potrete rispondere che siete nato a Napoli. Allora il mondo vi rispetterà. – Per mia madre, Napoli era il regno da cui tutto si irradia.”
Dunque un napoletano è colui che per più volte è stato chiamato su quel podio prestigioso, per una esecuzione seguita in tutto il mondo e ciò alla luce della storia potrebbe sembrare un controsenso. Infatti bisogna ricordare quale è stata l’origine del brano che maggiormente caratterizza quella esibizione, cioè la Marcia di Radetzky.
Essa nacque nel 1848, alla fine della prima guerra di indipendenza, quando battute le truppe piemontesi a Custoza e costretto Carlo Alberto di Savoia a varcare di nuovo il Ticino, per riparare nel suo Piemonte, il Maresciallo comandate dell’esercito imperiale, Joseph Radetzky, poté rientrare in Milano da cui era stato cacciato dagli insorti.
La notizia di quella vittoria giunse a Vienna e fu accolta con giubilo da tutti i sostenitori dell’imperatore. In occasione dei festeggiamenti che si organizzarono, il direttore dei balli imperiali Joahn Strauss compose il nuovo brano in onore della vittoria del maresciallo.
Dal punto di vista storico, dunque quelle note sottolineano quella che fu una sconfitta di truppe italiane da parte di un esercito straniero e la fine di uno dei primi tentativi di ridare all’Italia una sua unità ed indipendenza, cominciando col cacciar via gli austriaci dal lombardo-veneto. La presenza di un italiano a dirigere l’esecuzione di quella marcia dovrebbe dunque apparirci disdicevole. In realtà così non è per due buone ragioni.
La prima è quella che il tempo ha provveduto, come sempre avviene, a stemperare il significato politico che stava alla base di quel brano. La seconda ragione riguarda noi meridionali ormai disillusi a proposito della narrazione risorgimentale e con non pochi motivi di doglianza sul modo in cui poi l’Unità sarebbe stata realizzata. Quello stesso esercito sconfitto a Custoza dagli austriaci, sarà quello che dopo Garibaldi, sarebbe stato mandato a reprimere nel sangue ogni residua opposizione e si sarebbe poi macchiato di numerosi eccidi e prepotenze sulla inerme popolazione meridionale, considerata dai piemontesi alla stregua di selvaggi, più africani che europei.
Oggi, tuttavia, nessuno più ricorda il motivo per cui quel brano fu scritto ed ognuno si lascia pervadere, al risuonare delle sue note, da quella gioia istintiva che sempre emana il suono di una marcia. Marcia suonata semmai da una banda in occasione di una festa in un angolo qualunque del mondo, mentre attraversa allegramente le vie di un paese.
Ovidio nelle sue Metamorfosi affermava infatti che “Tempus edax rerum” ossia il tempo divora ogni cosa. Lasciamo dunque che esso digerisca ogni ricordo sulla genesi di quella marcia e lasciamo che essa infonda in noi una qualche stilla di felicità. Oggi soprattutto che gli attimi di felicità sono necessari alla nostra sopravvivenza, in questo mondo offuscato dalla densa nube della pandemia.
Fiorenzo Fiorenza, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons
